La storia recente dei premi Nobel per l’economia lascia lo spazio aperto a molte riflessioni sulla dinamica di quella che era stata definita a metà Ottocento da Thomas Carlyle una “scienza triste”. Carlyle si opponeva alle semplici considerazioni di mercato basate sulla legge fondamentale della domanda e dell’offerta. Il filosofo e storico scozzese non criticava tanto il sistema economico, quanto le interpretazioni e le analisi dei grandi economisti di quel tempo. In particolare, non gli piacevano le previsioni pessimistiche di Malthus e la visione utilitaristica di Bentham: due prospettive che mettevano in secondo piano la capacità costruttiva e creatrice della persona e la possibilità della società di muoversi secondo valori che non rispondessero solo all’interesse materiale.
Bisogna forse dire che molti economisti del secolo scorso hanno poi fatto di tutto per giustificare l’appellativo di “scienza triste”: le teorie formulate sui modelli matematici e sugli automatismi decisionali, per di più espresse con un linguaggio involuto e ipertecnico, sembravano fatte apposta per creare un fossato tra l’economia e la realtà quotidiana.
Da quell’epoca molta acqua è passata sotto i ponti e le critiche di Carlyle hanno fatto breccia. Il dato più significativo è che l’economia è uscita all’aperto e sempre di più ha fatto i conti con le scienze sociali, come la sociologia, così come con le discipline umane come la psicologia o la filosofia. Per poi compiere il grande passo per comprendere i principi etici, le valutazioni morali e da ultimo i doveri di sostenibilità ambientale.
Una prima svolta era stata compiuta nel 2002 dai giudici dell’Accademia reale delle scienze svedese con l’assegnazione del Nobel per l’economia
allo psicologo Daniel Kahneman che fu insignito del premio per «per avere integrato i risultati della ricerca psicologica nella scienza economica”. Secondo Kahneman il comportamento delle persone non corrisponde a ciò che tradizionalmente è descritto dai modelli economici, poiché si tende a seguire regole considerate razionali, mentre le piccole o grandi decisioni sono determinate da credenze soggettive e da particolarità nello stesso tempo emotive e cognitive.
Sulla stessa linea il Nobel 2017 è stato assegnato allo statunitense Richard Thaler dell’università di Chicago per i suoi studi sulla comprensione della psicologia economica. Thaler è uno degli esponenti di spicco dell’economia comportamentale, cioè di quella disciplina che impiega concetti tratti dalla psicologia per elaborare modelli di comportamento alternativi a quelli formulati dalla teoria economica prevalente.
Con il premio Nobel 2021 si è compiuto un altro passo: l’analisi empirica dei fatti della vita. Anche se può sembrare banale come motivazione, David Card dell’Università della California, Joshua Angrist del MIT e Guido Imbens della Stanford University hanno conquistato il Nobel di quest’anno grazie ai loro studi basati sugli “esperimenti naturali”, cioè sulla semplice osservazione della realtà.
Ecco quindi che si è passati dall’economia fondata sulle ideologie, sui modelli astratti, sull’elogio della presunta razionalità, ad un’economia che fa i conti con la dimensione multiforme della vita quotidiana con sviluppi e reazioni imprevedibili. La dimostrazione di come, in quest’era di globalizzazione, è importante cogliere quanto avviene anche nelle scelte che si sviluppano nei piccoli villaggi, nelle comunità, nelle relazioni sociali.
Dopo aver tentato di spiegare il mondo gli economisti tornano ad osservare le piccole cose. Una scelta che può essere molto utile. E non solo per vincere il premio Nobel.
(Trasmesso il 15 ottobre nella rubrica Plusvalore della Rete Due della Radio della Svizzera italiana)
Non c’è più l’economia di una volta (per fortuna) – RSI Radiotelevisione svizzera