La nuova alleanza tra profitto e bene comune

Profitto e bene comune, umanesimo e capitalismo, gratuità e mercato. Termini il più delle volte considerati antitetici, visione opposte della realtà. Ma al di là degli slogan e delle ideologie, soprattutto nell’attuale realtà complessa e connessa, è forse utile superare antichi schemi mentali e vecchi pregiudizi. Per esempio sul profitto l’ultimo più autorevole richiamo è venuto dall’enciclica “Fratelli tutti” in cui Papa Francesco ha ribadito il suo giudizio sulle imprese capitalistiche già più volte espresso nei suoi interventi: “Il pensiero cristiano non è contrario per principio alla prospettiva del profitto, piuttosto è contrario al profitto a qualunque costo, al profitto che dimentica l’uomo, lo rende schiavo, lo riduce a cosa tra le cose, a variabile di un processo che non può in alcun modo controllare o al quale non può in alcun modo opporsi».
Il profitto è considerato il principio fondamentale dell’economia neoliberale, quello che muove le iniziative imprenditoriali, il valore che sta alla base dell’economia di mercato. Un profitto che l’enciclica Centesimus annus indicava come “un indispensabile indicatore del buon andamento dell’azienda”, ricordando peraltro che l’impresa è prima di tutto e soprattutto una “comunità di uomini”.


Il problema non è quindi il profitto in sé, ma i metodi e le strategie che vengono utilizzati per raggiungere l’obiettivo di far crescere i guadagni delle imprese e soddisfare le attese degli azionisti.
Senza dimenticare che una realtà dinamica e solidale è soprattutto quella dove si possono sviluppare con eguale dignità le diverse dimensioni d’impresa. Anche il non profit ha bisogno al suo interno di efficienza e professionalità e non ha certo l’obiettivo di chiudere in perdita i propri bilanci, ma i profitti, indicatori di una sana gestione, non vengono distribuiti, ma reinvestiti per far crescere efficienza e operatività.
E’ allora importante scoprire “imprenditori e manager che testimoniano come un’impresa possa tornare ad avere un ruolo fondamentale nello sviluppo armonico della società e divenire un luogo dove la persona può esercitare la propria responsabilità rispetto a se stessa, alle comunità dentro cui vive, all’ambiente”. Sono parole del primo capitolo del libro “Verso un’economia integrale” di Massimo Folador e Giuseppe Buffon (Ed. Guerininext, pagg. 190, € 18). Il racconto di un viaggio di Folador, docente di Business Etichs presso l’Università Carlo Cattaneo di Castellanza, e Buffon, docente di Storia della Chiesa all’Antonianum di Roma, all’interno di una realtà, come quella italiana, dove non mancano gli esempi positivi di un’economia a misura d’uomo.
Il filo d’Arianna di questo viaggio è la dignità della persona e del lavoro, una dignità che può essere non solo difesa, ma valorizzata proprio nella dimensione delle relazioni, dei rapporti costruttivi, della fiducia che può caratterizzare ogni impresa. Anche grazie alle potenzialità offerte dalla tecnologia, basti pensare allo smart working che offre maggiori possibilità di conciliare famiglia e lavoro, ma che richiede anche un rapporto di fiducia e di aperta collaborazione.
E proprio dalla dignità delle persone e del lavoro nasce anche una dinamica che fa crescere insieme l’economia e la società. I moderni imprenditori non sono sognatori, ma – scrivono Folador e Buffon – “persone capaci di riconoscere i vantaggi del bello: quel capitale immateriale che dall’interazione con la fragilità e dall’ascolto del territorio, trae il successo economico e insieme umano dell’impresa. Il bene comune allora non è uno sforzo etico, né filantropia, ma un filo di seta che tesse i legami dell’impresa solidale”.
Tra profitto e bene comune ci può essere un’inaspettata alleanza. Perché un’impresa di successo è sempre di più un’impresa che sa coniugare libertà e creatività, valori e sensibilità sociale, visione e risposta alle esigenze sempre più pressanti della sostenibilità. Non è un discorso teorico: le esperienze raccolte in questo libro lo dimostrano.