Il fallimento del capitalismo dei partiti

Questo 2020 ha sicuramente cambiato il corso della storia e dell’economia con una crisi sanitaria senza precedenti che ha, a sua volta, provocato una crisi economica ancora imprevedibile nelle dimensioni, ma comunque estremamente grave. La storia ha tuttavia sempre qualcosa da insegnare soprattutto se si riesce ad uscire da quella che potremmo chiamare la schiavitù dell’eterno presente, cioè l’attenzione spasmodica del giorno per giorno, come se il passato appartenesse ormai ad un altro mondo con cui non abbiamo più nulla a che fare.

E’ così che il dibattito politico appare spesso disarmante, affollato da persone che ignorano i fatti, incapaci di distinguere la realtà dalle opinioni. Ne abbiamo avuto la prova nelle discussioni sulla revoca delle concessioni autostradali dove gran parte degli “autorevoli” interventi politici non tenevano nel minimo conto i risvolti giuridici, le ripercussioni economiche, le compatibilità finanziarie.

Eppure, se solo si avesse voglia di studiare e umiltà di imparare la storia sarebbe ricca di lezioni utili per affrontare il difficile futuro che abbiamo di fronte. Perché proprio le difficoltà attuali esigono che non si prendano strade sbagliate e che si risponda all’emergenza economica senza nascondersi dietro le facili ideologie e le tentazioni di potere.

Un esempio significativo lo troviamo nel libro in cui Franco Bernabè (“A conti fatti”, Ed. Feltrinelli, pagg. 368, € 20) racconta in suoi quarant’anni da timoniere nel mare agitato dell’economia italiana. Come spiega Giuseppe Oddo, che ha curato il volume, nell’introduzione “succede di rado che un manager renda pubblica la propria esperienza al vertice di un’impresa alzando il sipario su fatti, uomini, retroscena su cui di solito viene mantenuto uno stretto riserbo. Nel caso di questo libro l’interesse è tanto maggiore in quanto l’autore, persona appartata, poco incline all’esposizione mediatica, ha diretto due tra i più grandi gruppi industriali del paese, Eni e Telecom, e occupa tuttora posizioni di vertice a livello internazionale.”

Non a caso il sottotitolo del libro (“Quarant’anni di capitalismo italiano”) è altrettanto significativo quanto provocatorio. L’impegno di Bernabè infatti è stato in tutti questi anni quello di difendere le logiche del mercato, dell’efficienza, del merito, della competenza, del rispetto delle regole. Le prime esperienze sono quelle di un economista, prima all’Ocse, poi alla Fiat, per passare poi ad una azienda di Stato, come l’Eni e quindi ad un’altra grande azienda malamente privatizzata come Telecom. Nel gigante petrolifero Bernabè è riuscito a far prevalere lo spirito positivo del capitalismo, nell’azienda telefonica ha dovuto cedere al combinato disposto delle logiche della speculazione finanziaria e dell’ingerenza della politica.

E’ proprio questa la discriminante di fondo che lascia emergere il grande problema che accompagna l’economia italiana: un capitalismo di Stato che diventa essenzialmente l’occupazione delle poltrone da parte delle politica al di là e al di sopra di ogni strategia competitiva. E’ il problema che ha provocato il declino delle partecipazioni statali, trasformate da protagoniste delle modernità e della ricostruzione negli anni ’50 e ’60 a carrozzoni delegati al finanziamento dei partiti. E’ il problema che rischia ora di vanificare la strategia per il rilancio dove sarebbero necessarie competenze e capacità progettuali e dove sembra ancora prevalere la logica della spartizione e delle fedeltà di partito.

Il libro di Franco Bernabè è illuminante. Non solo per la cronaca avvincente dell’esperienza manageriale, ma anche per un capitolo finale in cui si traccia un bilancio metodologico dei rapporti tra Stato e mercato. Affermando con chiarezza che “lo Stato per sua natura non è in grado di tradurre l’innovazione in iniziative imprenditoriali alla stessa stregua dei privati. Lo Stato non ha la possibilità di governare il processo di distruzione creativa che è l’essenza del capitalismo”. Il ruolo dello Stato resta tuttavia fondamentale per creare “il sistema di regole e di infrastrutture pubbliche” necessarie per l’innovazione: quindi scuola, ricerca, università, pubblica amministrazione.

L’impegno non è da poco, ma è quello di cui ha bisogno l’Italia, uno Stato che valorizzi le imprese e la loro capacità di innovazione.

 

  • carl |

    Mi concentrerei, nei limiti di un commento, sull’affermazione: “..lo Stato non ha la possibilità di governare il processo di distruzione creativa…”. Beh, in primis va detto che
    a)lo Stato sono le persone che lo incarnano (di “gabinetto in gabinetto”.. Ma anche quelle che ne incarnano le varie realtà e strutture anche dopo che i gabinetti sono passati…) e
    b) che è compito primario dello Stato regolare il meglio possibile la transizione, le conseguenze, ecc della cosiddetta distruzione creativa, dell’innovazione, ecc. A livello nazionale se è regolabile intra muros… Ma tramite un indispensabile accordo e regolamentazione internazionale, come sarebbe il caso per la diffusione, l’impatto, l’adozione, ecc. della robotica, dell’automazione, dell’A.I…. e
    c) qui è dove casca l’asino… Perchè non avverrà e ognuno (ogni nazione e ogni impresa, industria, ecc. fara deciderà da sè.. Anche basandosi sul fatto che: “..se non lo facciamo noi, lo faranno i nostri concorrenti…” Sicchè…
    d) per tanti (troppi) vedo prospettive lavorative cupe, complesse, precarie e via dicendo e parallelamente non poche gatte da pelare sul piano socio-politico, economico..
    Vorrei sbagliarmi ma, guardandomi attorno non vedo nè idee, nè persone adeguate alla crucialità e complessità del momento storico in un mondo disarmonicamente evoluto/sviluppato che galoppa verso gli 8 (otto) miliardi di persone …

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