La libertà d’impresa appare fondamentale perché il sistema di mercato possa funzionare al meglio e valorizzare in tutte le loro potenzialità le iniziative imprenditoriali. E di riflesso togliere alle imprese for profit i "lacci e lacciuoli" (di cui parlava già Guido Carli negli anni 70) può contribuire a definire meglio il ruolo del non profit e delle imprese sociali. In questa prospettiva rimettere in discussione l’articolo 41 della Costituzione così come proposto dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, costituisce sicuramente uno stimolo a rivedere gli stessi presupposti ideologici che hanno guidato la legislazione in Italia negli ultimi decenni. Se è vero, come ha sottolineato sul Sole 24 Ore di martedì Valerio Onida, che non vi è un rapporto diretto tra i «principi generali» espressi dalla Carta fondamentale e le leggi che hanno progressivamente limitato la libertà d’impresa, è altrettanto vero, come ha sottolineato su queste stesse colonne Guido Gentili, che riprendere il dibattito che ha portato a quella formulazione «non sarebbe certo scandaloso».
Tutto l’impianto degli articoli che la Costituzione dedica all’attività economica risente infatti di quello che potremmo chiamare il primo compromesso storico tra i partiti di ispirazione marxista e l’ala sociale dei cattolici. Al primo posto (articolo 35) vengono i diritti dei lavoratori, dei sindacati, delle donne dando per scontata l’esistenza di una realtà chiamata "impresa" che viene legittimata solo successivamente. Bisogna poi arrivare al successivo articolo 42 per verificare come dopo l’affermazione solenne secondo cui «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge» si pongano subito limiti e condizionamenti affermando che la legge «ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Una sorta di libertà condizionata che va nella direzione opposta rispetto al considerare, come sosteneva Friedrich von Hayek, la libertà economica in stretta connessione con «la libertà senza altri aggettivi».
È certamente anche per questo percorso ideologico che l’impresa, anzi tutte le imprese sono viste in una logica di sottomissione al potere politico. È anche per questo che ha avuto poco spazio e poca attenzione la realtà dell’impresa sociale non profit, un tipo di impresa che proprio in tempi di difficoltà e di crisi potrebbe svolgere una funzione rilevante per non disperdere opportunità e risorse umane. È così significativo che un libro dedicato all’impresa sociale abbia come sommario "Idee e percorsi per uscire dalla crisi". «Negli ultimi anni – sottolinea uno degli autori, Giorgio Fiorentini, docente alla Bocconi – le aziende non profit si sono ritagliate un proprio distinto posizionamento sfruttando gli spazi non presidiati dallo stato o dal mercato». Riservare attenzione all’impresa sociale appare importante anche per definire e rispettare i ruoli. E quindi lasciare le imprese for profit alla loro missione: fare profitti, creare ricchezza, sviluppare l’occupazione. Senza le pretese immediate di una socialità che comunque diventa molto più facile da perseguire lasciando le imprese libere nella loro missione di creare valore.
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Vincenzo Campedelli e Giorgio Fiorentini, "Impresa sociale, idee e percorsi per uscire dalla crisi", Ed. Diabasis, pagg.146, € 12
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Pubblicato sul Sole 24 Ore del 10 giugno