La realtà italiana a proposito di debito, tasse e pensioni ricorda il regno delle fiabe di Andersen. Una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all’altezza della loro carica e a quelli molto stupidi. E così l’imperatore indossò quelle stoffe e aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: “Che meraviglia i nuovi vestiti dell’imperatore!” «Ma non ha niente addosso!» disse finalmente un bambino.
La favola del re nudo sembra scritta come allegoria dell’attuale politica italiana, una politica che ha sempre più cercato di costruire il proprio consenso sulla base di promesse prima, e di provvedimenti poi, approvati a prescindere dalle conseguenze economiche e sociali a medio lungo termine.
Sinistra e destra hanno impostato i loro programmi negli ultimi dieci anni su interventi di carattere personale e assistenziale, in gran parte finanziati a debito, il cui costo quindi è stato posto sulle spalle delle generazioni future, e per la restante parte da tagli alla spesa sanitaria. Si va dagli 80 euro del Governo Renzi, al reddito di cittadinanza dei 5 Stelle, a quota cento della Lega, alla miriade di bonus degli ultimi mesi: tutti interventi che sono stati varati al di là e al di sopra delle reali necessità (e delle reali possibilità) della società italiana. Così come si è enfatizzato il tema delle immigrazioni mentre non è mai stato affrontato con serietà il vero grande problema del crollo demografico.
Solo la pandemia ha portato in primo piano i limiti delle politiche sanitarie: la continua riduzione dei posti letto negli ospedali e la progressiva perdita di possibilità di intervento da parte dei medici di famiglia. Ma la stessa pandemia, pur nella sua gravità, non ha ancora convinto la politica ad un impegno radicale, un impegno che sarebbe peraltro possibile grazie ai fondi, qualcosa come 36 miliardi per l’Italia, che l’Unione europea, attraverso il Mes (Meccanismo europeo di stabilità), ha reso immediatamente disponibili per questo scopo.
Gli ultimi mesi hanno così portato al massimo livello la politica dei bonus. Se ne sono inventati di tutti i tipi, dalle vacanze alle biciclette, dalla cultura alle baby sitter con una pioggia di interventi che se in alcuni casi hanno limitato il disagio, nel loro complesso non hanno avuto e non avranno alcun effetto moltiplicatore sulla crescita economica. E hanno fatto salire il debito pubblico a livello da cui è sempre più difficile tornare indietro.
La realtà è che “il virus è entrato in un corpo (l’Italia) che aveva già molte patologie in essere: un enorme debito pubblico, una società fondata solamente si diritti e non sui doveri, un tasso di occupazione tra i più basi dei paesi industrializzati, poi l’ossessione delle disuguaglianze e della povertà senza indagare le vere cause delle une e dell’altra”. Lo scrive Alberto Brambilla nel libro “Le scomode verità su tasse, pensioni, sanità e lavoro” (Ed. Solferino, pagg. 298, €16,50). Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari previdenziali, è uno dei maggiori esperti sui temi sociali ed è stato sottosegretario al welfare negli ultimi Governi Berlusconi prima di essere “emarginato” dalla politica proprio per la sua impopolare volontà di basare le scelte non sulla demagogia, ma sulla realtà dei numeri e sulla logica delle conseguenze.
Ci sono dati che lasciano esterrefatti. Per esempio che in Italia si spende più per il gioco d’azzardo che per la sanità. Oppure che su 16 milioni di pensionati 8 sono totalmente o parzialmente assistiti dalla Stato. O ancora che nonostante il forte incremento della spesa assistenziale (dai 73 miliardi del 2008 ai 106 miliardi nel 2018) la povertà è aumentata dal 4 al 7% della popolazione, secondo i dati ufficiali dell’Istat. E che ci sono 843mila persone che usufruiscono dalla pensione o dell’assegno sociale: “il che vuol dire -spiega Brambilla – che fino a 66 anni sono stati sconosciuti al fisco, non hanno mai pagato contributi sociali e imposte dirette, ma allo scoccare del sessantaseiesimo anno, come per incanto si sono appalesati al Fisco e all’Inps richiedendo il diritto ad avere un assegno mensile adducendo l’assenza di redditi (se lavorano in nero o nel malavitoso non ci sono buste paga)”.
C’è qualcosa che non torna nella narrazione che sembra prevalere nei mezzi di comunicazione, in particolare nella televisione. Il risultato è che con la ricerca del consenso individuale passano in secondo piano i beni collettivi, come la scuola e la sanità. E si penalizza il merito, non si incentiva il lavoro, si soffoca l’iniziativa e lo spirito imprenditoriale.