Il capitalismo non è solo capitali

Una cosa è certa: per rimediare il più possibile al blocco dell’economia causato dalle misure adottate da tutti gli stati per sconfiggere la pandemia ci sarà bisogno di una grande iniezione di capitali. E infatti in tutti i paesi la spesa pubblica si è fatta carico per compensare le perdite di guadagno e per far uscire la società dall’apnea del lockdown.
Ma un’altra cosa è altrettanto certa: i capitali saranno utili per sanare le ferite più rilevanti, ma, al di là della quantità che si potrà mettere in campo, non saranno l’elemento sufficiente a rimettere in moto un’economia che per molti aspetti sarà inevitabilmente diversa da quella che abbiamo conosciuto e vissuto fino all’inverno (o all’inferno) provocato dal virus.
Per molti aspetti. In primo luogo perché è ormai evidente che ci vorranno anni per riprendere le abitudini di quella che era, per molti aspetti, una società di massa. Grandi città, grandi spostamenti, grandi manifestazioni. Tutto è rimesso in discussione per l’esigenza di quel distanziamento sociale che è sempre più presentato come un’arma di sopravvivenza. Durerà ancora a lungo l’impossibilità di pratica quella piccola globalizzazione quotidiana fatta di viaggi, incontri, spettacoli, consumi, manifestazioni.
Si parla ormai apertamente, e giustamente, di nuova normalità. Uno scenario nuovo che non può essere affrontato (solo) con le vecchie ricette anche se portano il nome altisonante di grandi economisti come John Maynard Keynes.
Quali possono essere i fattori essenziali per avviare un nuovo periodo di crescita? Quali strategie per creare le risorse necessarie per vincere la disoccupazione e realizzare una maggiore equità sociale?


Una premessa indispensabile. Non siamo più nel Novecento. Viviamo nell’era in cui informatica e telecomunicazioni stanno ridisegnando i rapporti sociali ed economici offrendo opportunità straordinarie, opportunità che tuttavia vanno sviluppate mantenendo una forte centralità alla dignità di ogni persona.
Ma nello stesso tempo abbiamo vissuto in un mondo pre-pandemia dove la crescita economica ha creato numerosi problemi che gli economisti più eleganti definiscono “esternalità negative”: la crisi ambientale, le disuguaglianze all’interno dei paesi, la persistenza di fasce significative di emarginazione. Tutto questo pur senza dimenticare che, anche grazie alla globalizzazione, milioni di persone sono uscite dalla povertà e dalla fame.
Un punto fondamentale appare allora la dimensione etica della crescita. Non è solo uno slogan. E’ un requisito fondamentale che sta alla base di ogni economia. In fondo quello che è considerato il principale teorico dell’economia di mercato, Adam Smith, prima di quel grande classico che è “La ricchezza delle nazioni” scrisse quell’altrettanto importante libro dal titolo “Teoria dei sentimenti morali” in cui si rende esplicito il fatto che la felicità di ogni persona non può che nascere dalla felicità del prossimo.
Nonostante il nome non sono i capitali a muovere il capitalismo. Lo ha descritto mirabilmente Luigi Einaudi: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propia azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.
Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi.”
E molti decenni prima l’economista britannico David Ricardo all’inizio dell’Ottocento, proprio all’avvio della prima rivoluzione industriale, nel suo libro sui principi dell’economia politica e dell’imposta, sottolineava l’importanza di due fattori fondamentali: il lavoro e l’innovazione.
Nel 1942 l’economista Joseph Schumpeter definiva l’attività imprenditoriale e i processi nell’economia di mercato come una “distruzione creativa” che ha come motore l’innovazione in tutti i suoi aspetti anche a prezzo di cambiamenti che avrebbero comportato ansietà, delusioni, perdite e, in alcuni casi, veri e propri fallimenti.
I nuovi beni di consumo, i nuovi metodi di produzione o di trasporto, i nuovi mercati, le nuove forme di organizzazione industriale create dall’impresa capitalistica realizzavano, affermava l’economista austriaco, un livello di vita e di benessere che le generazioni passate non potevano nemmeno immaginare.
Ma torniamo all’oggi. Per riprendere il cammino di una rinnovata crescita la figura dell’imprenditore (e quindi dell’impresa) appare fondamentale. Un’impresa fatta di uomini e robot, di sensibilità sociali e di efficienza produttiva, di corretto equilibrio tra diritti e doveri. Ci sono parole come assistenzialismo, rendite di posizione, monopoli che una vera politica economica dovrebbe bandire dal proprio orizzonte.
Ci sono altre parole come libera iniziativa, risparmio produttivo, partecipazione responsabile, che dovrebbero invece ritrovare un posto di primo piano. Soprattutto in una realtà come quella italiana fondata sulle piccole e medie imprese, sul risparmio privato, sulla capacità tutta imprenditoriale di coniugare l’innovazione con l’estetica e la funzionalità con l’efficienza.
Se ci fermiamo ai dati contabili le prospettive italiane possono apparire tristemente grigie. Se riusciamo a ridare spazio all’iniziativa degli imprenditori nelle imprese di tutte le qualità e dimensioni allora la realtà potrà ancora una volta dimostrare di essere quel calabrone che per tutte le leggi fisiche non potrebbe volare. E invece vola. E continuerà a volare.