Un contributo di Sandro Frigerio che volentieri ospitiamo.
I riferimenti alla crisi del 1929 per trovare lumi sulle sofferenze dell’economia odierna sono frequenti. Probabilmente troppi. Forse – avrebbe detto un economista ironico come John K. Galbraith – perché non ci viene in mente nulla di meglio. Purtroppo, alcune riflessioni ci fanno capire che i confronti non ci portano lontano. Senza considerare che più che il New Deal fu qualche anno dopo la guerra a far aumentare la ‘domanda aggregata’ e a sbrogliare la matassa.
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Passando subito alle manovre più recenti, ciò che quell’esperienza, con la successiva rilettura keynesiana del 1936 ci insegna, è che quando la curva di interessi è molto bassa – come è soprattutto in America – scatta quella “trappola della liquidità” per la quale anche ulteriori raschiamenti dei tassi di interesse non portano da nessuna parte. Del resto, gli interventi recenti di Fed e Bce non erano finalizzati a sostenere la domanda, quindi intervenendo sull’ economia reale, ma si inserivano nel classico modello che vuole che le borse salgano, quando per riduzione dei tassi, i titoli di Stato scendono, quindi intervenendo sull’economia di carta, che poi è sempre maledettamente reale.
Ciò cui abbiamo assistito in questi giorni, anche se con modalità certamente eccezionali, è che nel bel mezzo di una crisi di fiducia, a tassi in discesa si è associata la corsa al reddito fisso (e non la fuga) per drenare la comunque consistente liquidità.
In sostanza, c’è da ritenere che le borse continueranno a scendere finchè ci sarà l’aspettativa che esse continueranno a farlo. E’ tautologico, è deludente, ma è così. Quel che in questo momento può dare una svolta non è tanto un insieme di provvedimenti tecnici, quanto l’aspettativa che le misure prese – a livello globale perchè l’economia è globale – portino gli operatori a considerare che da domani le cose vadano meglio o che, almeno, si sia toccato il fondo e che non si possa che risalire. Finchè così non sarà, dovremo probabilmente affrontare alti e bassi speculativi (ok: chiamiamoli “realizzi”) dentro un trend comunque negativo. Purtroppo, la discesa porta distruzioni e prima si danno segnali coerenti di volerla arrestare meglio è.
Uno dei motivi differenzianti della crisi del ’29 è che ottant’anni fa, almeno in una certa misura, si poteva pensare che una serie di ‘firewall’ potesse se non isolare almeno rallentare la diffusione del fuoco da un paese all’altro. Non era vero nemmeno allora, ma oggi gli effetti di amplificazione sono molto più ampi. Non esiste nessuna economia che possa da sola capovolgere le situazioni. Anche se la globalizzazione ha prodotto effetti assai contraddittori sui mercati mondiali.
Le grandi corporation Usa hanno presentato in questi anni ottimi bilanci, grazie anche al fatto che hanno portato la produzione (loro e sempre più quella dei loro outsourcer) verso Cina e altri paesi asiatici, ma nello stesso tempo il disavanzo dei conti con l’estero degli Usa ha raggiunto livelli sconcertanti. L’industria europea dell’auto negli ultimi anni non è stata meno lesta a spostare linee di produzione verso i paesi dell’est del continente, cogliendo i vantaggi derivanti dal processo di integrazione europea.
Nel dibattito politico si assiste oggi ad una riesumazione delle teorie del deficit spending quanto meno curiosa, perché orientata a proteggere i redditi più che l’occupazione. Si parla per esempio di riduzioni fiscali che dovrebbero sostenere il livello della domanda individuale e familiare. Si è pure rievocata l’immagine dei lavoratori pagati per riempire le buche che altri venivano pagati per fare.
Due osservazioni possono aiutarci in merito a non aggiungere danno al danno. La prima è che il sostegno della domanda non può prescindere dalla qualità di questa stessa domanda. La maggior parte della spesa delle famiglie oggi non si indirizza verso beni alimentari – che in una misura prevalente alimentano una offerta locae – ma verso la casa e verso una serie di beni e servizi nei quali la componente import è altrettanto rilevante.
Servirebbe a poco aumentare attraverso il disavanzo una domanda che alla fine si indirizza verso prodotti di prevalente o totale importazione anche se, naturalmente, in un’economia globale, se il nostro vicino sta meglio, un po’ stiamo meglio anche noi. L’idea tuttavia che l’incremento della spesa si traduca in maggiore domanda, soprattutto in questo periodo di fine anno, di Tv coreane, pc made in China, fotocamere made in Japan, forni microonde made in Thailand, scarpe made in Vietnam non ci offre molte chances in più.
Restano le buche per terra, allora? In un certo senso si, ma con delle carte in più Più che i redditi, in questa situazione andrebbero sostenute le attività di produzione e il lavoro. Il modello della TVA (Tennessee Valley Authority) potrebbe essere adottato non per le buche per terra, ma per mettere mano con più decisione ma senza sprechi ad un piano di potenziamento infrastrutturale che riguarda non solo questo o quel paese ma l’insieme dei grandi mercati.
Un modello di questo tipo non richiede minore tassazione (anzi, forse una maggiore) come qualche decennio fa avrebbe potuto sostenere un economista come Ugo La Malfa (memorabili alcuni suoi interventi ai tempi della crisi petrolifera del 1973), ma associato ad una revisione concertata dei parametri di Maastricht per liberare più risorse pubbliche senza che ogni paese si trovi a fabbricare moneta come nel gioco del Monopoli, potrebbe risolvere una serie di problemi simultaneamente, dal gap infrastrutturale ad una politica di equità distributiva basata sul lavoro, ai segnali di fiducia da dare ai mercati. Non è una politica che si decide in un week-end tra Washington e Parigi, ma i segnali possono essere dati e il mercato li coglierebbe..
Sandro Frigerio