Nelle valutazioni delle elezioni regionali di fine marzo la prospettiva strettamente politica ha nettamente avuto il sopravvento sull’analisi economica e soprattutto sociale dei cambiamenti. Un segno anche della caduta, forse definitiva, delle antiche certezze che collegavano il voto alle divisioni sociali: con la classe operaia schierata naturalmente e obbligatoriamente con la sinistra e la tradizionale borghesia a fianco inevitabilmente dei partiti conservatori e quindi della destra.
La caduta delle ideologie da una parte e, soprattutto, le trasformazioni sociali dall’altra hanno rivoluzionato il quadro di riferimento: con un consenso che ormai diventa un’espressione trasversale delle diverse componenti sociali e con una politica più fondata sulla dimensione mediatica e quindi personale, che sulla logica delle difesa di interessi personali o collettivi. E così l’Italia è diventata la terra in cui tutti sono borghesi, ma nessuno è veramente borghese. Tanto che il termine “borghesia” è quasi sparito dall’attuale lessico politico.
Eppure la piccola borghesia impiegatizia e commerciale era già stata al centro dell’attenzione, in particolare con quel “Saggio sulle classi sociali” in cui all’inizio degli anni ’70, Paolo Sylos Labini intercettò i grandi cambiamenti del paese. Ma pochi anni dopo l’elogio dei veri borghesi compiuto da Sergio Ricossa nel suo “Straborghese”, non ebbe che scarsa risonanza. Quel libro degli anni ’80 viene ora riproposto con coraggioso spirito provocatorio dall’Istituto Bruno Leoni.
Secondo Ricossa, e qui sta la provocazione, la borghesia non è una classe sociale, ma un carattere, un modo di vivere e di concepire la propria posizione politica e sociale. “Il borghese – scrive Ricossa – è essenzialmente chi vuole farsi da se. I tratti principali per riconoscerlo sono l’individualismo, lo spirito di indipendenza, l’anticonformismo, l’orgoglio e l’ambizione, la volontà di emergere, la tenacia, la voglia di competere, il senso critico, il gusto della vita”. Ma se si pone l’individualismo al primo posto non può che essere evidente come il borghese non possa che rifiutare di essere considerato una classe sociale, tanto più se si assimila questa classe con quel “ceto medio” descritto il più delle volte come una realtà perennemente a metà strada tra i vecchi proletari e i nuovi (quasi) ricchi.
Il borghese, come le descrive Ricossa, è invece un protagonista di quell’evoluzione storica dell’economia che è stata erroneamente definita “capitalismo”. Erroneamente perché al suo centro non ha i capitali, comunque importanti, ma l’eterna sfida dell’uomo a conoscere, inventare, trovare soluzioni nuove, crescere e, perché no, anche arricchirsi. Perché “ il borghese crede che il mondo sia sempre da cambiare”. Un richiamo allo spirito liberale, uno spirito che già trent’anni fa era appannato e confuso e che continua a dover lottare per essere riconosciuto invece come un elemento trainante della crescita sociale. Ma un richiamo anche a vivere l’incertezza come una condizione ineliminabile e il rischio, meglio se calcolato, come una sfida da affrontare. Elementi che fanno ancora a pugni con i miti del garantismo e della comoda protezione sotto l’ala materna dello Stato. Ma anche per questo ancora più utili.
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Sergio Ricossa, “Straborghese”, Ed. Istituto Bruno Leoni, Pagg. 180, € 20
Pubblicato l'8 aprile sul Sole 24 Ore