Nel dopo-crisi welfare da ripensare

Nardu Il problema della sostenibilità finanziaria dell'attuale modello di welfare dovrebbe essere al primo posto nelle preoccupazioni politiche dei maggiori paesi europei. Soprattutto se si considerano gli effetti diretti e indiretti di una crisi economica ancora molto lontana dall'essere superata. Con prospettive che diventano allarmanti se si considera il combinato disposto dell'allungamento della vita media e di un trend demografico particolarmente pesante in Italia, come ha sottolineato Guido Gentili martedì su queste stesse colonne.
Pur con molta lentezza e cautela, il sistema previdenziale italiano ha peraltro ormai da tempo imboccato una strada di progressivo cambiamento con il graduale aumento dell'età pensionabile, l'introduzione del sistema contributivo, l'avvio dei fondi pensione, la revisione dei coefficienti di calcolo delle pensioni. Resta intatta la filosofia di fondo di un sistema che si è ispirato a quel rapporto redatto per il governo inglese da William Beveridge nel 1942 come completamento sociale alle strategie fiscali e monetarie sostenute da John Maynard Keynes.


Alla sua base c'è il diritto sociale del cittadino di avere la tutela da parte dello stato di una vasta gamma di diritti («from the cradle to the grave», dalla culla alla tomba). Beveridge era tutt'altro che uno statalista, anzi era un liberale con un'appassionata fede nella libertà personale, ma anche con la convinzione che il mercato non avrebbe mai potuto garantire significativi risultati sul fronte della giustizia sociale e dei bisogni collettivi.
Ora, ancora più che nell'immediato dopoguerra, ci si trova di fronte alla necessità di scelte radicali, come sottolinea Edoardo Narduzzi in un libro saggiamente provocatorio fin dal titolo Ciascuno per sé, vivere senza welfare.
«Nello scenario post-crisi – scrive Narduzzi – le economie si trovano di fronte a un passaggio storico: la crescita accelerata del debito pubblico può agevolare la nascita di una sorta di stato totale (…) oppure può favorire la svolta oltre lo stato sociale, figlio del periodo delle ideologie, dell'ottimismo del boom economico e di un facilitato ricorso all'indebitamento pubblico e all'aumento del prelievo fiscale». Tutti elementi, questi ultimi, che appartenevano ai tempi di Lord Beveridge e non più allo scenario economico attuale, caratterizzato invece da una crescita prevedibilmente lenta e da sempre minori margini di manovra sul debito e sulla pressione fiscale.
Invertire la rotta sarà altrettanto difficile quanto necessario. Riducendo il perimetro dell'intervento statale per evitare che l'ammontare delle risorse in qualunque modo intermediato dallo stato divenga, a causa dell'eccessivo carico fiscale, tale da limitare insieme la libertà personale e la competitività delle imprese. L'alternativa di un progressivo allargamento della responsabilità personale è possibile anche perché, come sottolinea Narduzzi, mentre nel secolo scorso lo stato era per sua natura "super partes", a suo modo garanzia di equità e correttezza, ora c'è più spazio per il privato perché «tutto è in rete e ogni cittadino è nei fatti controllore di chi agisce in nome dell'interesse comune».

Edoardo Narduzzi, Ciascuno per sé, vivere senza welfare, Marsilio, pagg. 172, € 13,00

Pubblicato il 1° aprile sul Sole 24 Ore