La riforma del reddito di cittadinanza è certamente tra i temi che hanno già suscitato maggiori polemiche politiche dopo il varo della legge di bilancio del nuovo Governo. Polemiche non solo da parte dei partiti, in particolare dei 5Stelle che ne avevano fatto una loro bandiera, ma anche da parte di uno schieramento più ampio che comprende i sindacati, così come gruppi cattolici e di impegno sociale.
Al di là dei toni polemici e massimalisti va tuttavia riconosciuto che il reddito di cittadinanza è stata una di quelle riforme varate in fretta e senza particolari approfondimenti dal primo Governo Conte, quello formato da 5Stelle a Lega. E nessuno dimentica l’esultanza dei politici pentastellati che dal balcone di Palazzo Chigi inneggiavano un po’ frettolosamente all’abolizione della povertà.
La legge affidava all’Inps, che peraltro ha svolto egregiamente la sua missione, il compito di raccogliere le domande, compiere un controllo unicamente formale ed erogare le prestazioni. E’ stata poi la Guardia di Finanza, impegnata anche su molti altri fronti, a cercare di snidare furbetti e truffatori.
Nel 2021, sono stati erogati redditi di cittadinanza a oltre un milione e 771 mila, mentre tra gennaio e maggio 2022 si è arrivati a quota un milione e 555 mila con un costo complessivo superiore agli 8 miliardi. Ebbene le Fiamme gialle hanno scoperto illeciti per 288 milioni con 29mila persone denunciate alle autorità giudiziarie.
Non sono questi illeciti, tuttavia, a costituire il problema maggiore. Una ricerca condotta lo scorso anno dalla Caritas ha dimostrato che la metà dei veri poveri non ha potuto accedere a questa forma di assistenza, che peraltro per il 40% è stata concessa a persone e famiglie che non erano e non possono essere socialmente ed economicamente considerate poveri.
È così che gli stessi dati ufficiali dell’Istat hanno dimostrato che la povertà in Italia non solo non è stata abolita, ma è addirittura cresciuta negli ultimi anni.
Una sana e prudente riforma del reddito di cittadinanza appare quindi ampiamente giustificata. Certo, non come impegno a fare il contrario di quanto era stato fatto dai passati governi, ma come volontà (da dimostrare) di utilizzare le poche risorse a disposizione per affrontare i casi effettivi di disagio e di emarginazione. Senza dimenticare che la povertà non è solo un elemento economico, ma è anche e soprattutto una carenza su molti fronti, da quello sanitario a quello abitativo, a quello delle relazioni sociali.
E non sarebbe sbagliato anche cambiare il nome. La cittadinanza non dovrebbe essere associata ad elementi sociali. La Costituzione all’art. 3 afferma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” e sembra quasi considerare come la cittadinanza come un dato di fatto, un concetto che viene dopo quello di popolo (art.1) e quello di “diritti dell’uomo” (art.2) a cui corrispondono “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La stessa Costituzione si occupa concretamente di cittadinanza solo in merito al divieto di privarne qualcuno per motivi politici (art. 22).
Ma è probabilmente una speranza eccessiva quella di pensare che le riforme si possano fare per rispondere ad effettive esigenze sociali e non a bandierine politiche e a propaganda elettorale.