Il capitalismo è sempre di più sul banco degli accusati. Anche per la pandemia. Anche per questo, se è vero che tre indizi fanno una prova, allora è più che dimostrato che l’Italia del 2020 ha scelto la strada della crescita della presenza dello Stato nell’economia. La giustificazione di fondo è nella gravissima crisi economica e finanziaria provocata in tutto il mondo dalla pandemia, ma è una giustificazione puramente ideologica che può essere facilmente smentita dalla realtà dei fatti.
Guardiamo agli esempi concreti.
L’Alitalia ha certamente subito un duro colpo negli ultimi mesi come tutte le compagnie aeree mondiali. Ma la crisi della società e i bilanci in passivo sono una dimensione costante degli ultimi vent’anni. Le Autostrade hanno certamente perso ricavi nei giorni del lockdown, ma la scelta di creare una società a capitale pubblico è stata determinata essenzialmente dalla volontà di punire i soci privati, in particolare i Benetton, considerati sommariamente i responsabili del crollo del Ponte Morandi a Genova.
Per l’Ilva (o ex Ilva) il discorso è più complesso. Le difficoltà di mercato provocate dalla recessione si sommano alle rigidità sindacali, alle incursioni (certamente giustificate) della magistratura, alla mancanza di chiarezza negli interlocutori politici locali. Il risultato sempre più probabile sarà l’ingresso diretto dello Stato, cioè della politica, nella gestione della società.
C’è una tentazione statalista che avanza quasi come se la crisi economica fosse anche il segno della crisi di un sistema economico, di quel capitalismo che sembrava aver vinto la sua battaglia con il crollo del muro di Berlino e la frantumazione del socialismo reale sovietico. C’è un ritorno delle imprese di Stato dimenticando gli anni delle partecipazioni statali, delle aziende pubbliche dominate dai partiti, delle tangenti che erano il prezzo dell’occupazione politica dei consigli di amministrazione.
Eppure il capitalismo non è solo profitto a tutti i costi. Lo dimostra l’accattivante e coraggioso libro di Stefano Cingolani (“Il capitalismo buono, perché il mercato ci salverà”, Ed. Luiss, pagg. 170, € 15), un libro, come scrive Giuseppe De Rita nell’introduzione, “impressionante nella sua ricchezza di informazioni e notazioni sulla enorme e continua carica di innovazione planetaria complessa, ma anche estremamente veloce”.
In queste pagine si scoprono mille motivi per guardare con diffidenza alla promessa di sicurezza e protezione che sembrano caratterizzare gli interventi statali. E altrettanti motivi per guardare alle potenzialità di un sistema basato non tanto sui capitali, ma soprattutto sui valori delle persone, sulla libera iniziativa, sulla creazione di ricchezza e in larga parte anche sulla condivisione e la solidarietà.
Il “capitalismo buono” è quello che ha fiducia nell’innovazione, che mira a produrre ricchezza prima che a distribuirla, che garantisce spazi di libertà anche a quel Terzo settore tanto spesso dimenticato eppure essenziale, soprattutto in una realtà come quella italiana, per sostenere le buone pratiche del welfare.
È in fondo una società aperta quella che, non giocando in difesa, può sperare di ricostruire una nuova normalità positiva. Perché, come scrive Cingolani, “tra le macerie della crisi più grave della società moderna possiamo vedere che cambierà il lavoro, cambieranno le città, cambierà la domanda e, di conseguenza, l’offerta, lo sguardo lungo prenderà il posto della miopia con la quale è stata guida spesso la società: si affermano già nuovi bisogni e nuove priorità: la salute, l’ambiente, il riequilibrio delle risorse e dei fattori di produzione”.
La risposta non può stare nel passato, nello statalismo da secolo scorso. La quarta rivoluzione industriale sta cambiando il campo di gioco. Solo il dinamismo della libertà può far sì che l’economia digitale divenga la risposta ai nuovi bisogni. Per questo le regole basilari devono essere quelle di un buon capitalismo.