Come è consuetudine la legge di bilancio approvata fine d’anno è stata ricca di novità in campo fiscale con l’introduzione di grandi novità, come la flat tax per le partite Iva, e di inattesi aggiustamenti pur con una sostanziale riconferma dei vari bonus, agevolazioni e trattamenti particolari per le imprese. Non manca un tradizionale condono, ribattezzato “pace fiscale”, che azzera i debiti verso il fisco di piccola entità. Altre misure hanno subito suscitato forti polemiche come il raddoppio dell’Ires sulle società non profit, la tassa sulla bontà come l’ha definita il presidente della Repubblica: un raddoppio dapprima maldestramente difeso dal Governo e poi seguito dalla promessa di un intervento riparatore che infatti è avvenuto con un decreto successivo.
Resta comunque il fatto che il Governo “del cambiamento” ha ripercorso con questa manovra tutti i vecchi difetti degli interventi precedenti. Sono state messe insieme misure di natura diversa, talvolta addirittura estranee alle problematiche del bilancio (basti pensare all’introduzione di un ticket di ingresso per i turisti che arrivano a Venezia), senza alcuna coerente strategia unitaria, spesso con il solo scopo di rastrellare quanti più soldi possibile per compensare le maggiori spese previste. E’ il caso della cosiddetta web tax, un balzello in più al di fuori di ogni logica di coordinamento fiscale internazionale come sarebbe necessario per ottenere risultati concreti e per non rischiare di avere contraccolpi negativi maggiori dei potenziali benefici.
Eppure, al di là degli schieramenti politici, si potrebbe dire: se non ora, quando? Siamo ormai apertamente in presenza di una dimensione completamente nuova nell’economia e in particolare nel commercio interno e internazionale. Globalizzazione e tecnologia hanno cambiato il modo di produrre, di acquistare, di ascoltare la musica, di guardare la televisione.
E il fisco è rimasto, nei suoi elementi di fondo, quello di un volta con il risultato di fare dell’Italia un Paese tra i meno attrattivi non solo e non tanto per l’alta pressione fiscale, ma soprattutto per la complessità delle regole, le continue modifiche, l’incertezza della loro applicazione, la lentezza dei procedimenti giudiziari.
Eppure un Fisco diverso sarebbe possibile. Lo spiega Andrea Silvestri, tra i maggiori esperti di diritto tributario, nel libro “Il Fisco che vorrei” (Ed. Franco Angeli, pagg. 148, € 19), un’analisi severa, ma costruttivamente operativa che non si limita a criticare, con tanti validi argomenti, la situazione attuale, ma traccia le linee di fondo di una riforma realisticamente possibile. “Perché quello che è certo – afferma Silvestri – è che il fisco può essere un volano di crescita, anche nell’interesse più ampio del sistema economico”. Ma la logica di fondo dovrebbe essere quella di vedere nell’impresa un indispensabile elemento positivo e non una potenziale fonte di evasione fiscale.
Ecco allora l’esigenza di semplificare, di spostare le imposte dalle imprese ai consumi, di stipulare un “patto col Fisco” per poter programmare a medio termine senza che cambino le regole, di garantire equità e certezza nell’applicazione delle leggi, di favorire le imprese innovative e la crescita dimensionale. Qualcosa in questa direzione si è fatto negli ultimi anni, ma molto resta da fare.