E’ innegabile che in questo periodo ci sia un clima che i più benevoli potrebbero definire inedito e che tuttavia appare preoccupante per le sorti della democrazia. Tanti fattori. C’è una tendenza a raccontare la realtà diversa da quella che è: e infatti le indagini sulla percezione dei cittadini spiegano che l’Italia è tra i paesi in cui è più lontano quello che si pensa dalla verità dei fatti, con punte particolari per l’immigrazione, la criminalità, le disuguaglianze sociali. C’è poi una strisciante polemica verso il Parlamento che, oltre a non avere più la centralità auspicata nella prospettiva costituzionale, è chiaramente sottomesso alle logiche dei partiti che peraltro decidono sempre di più con scelte prese ai vertici senza alcun tipo di condivisione se non quella aleatoria dei sondaggi.
C’è quindi una formazione dell’opinione pubblica che sempre di più avviene per slogan, per giudizi sommari, per affermazioni apodittiche, senza la volontà di approfondimento, di riflessione, di confronto. C’è infine una crescente indisponibilità alla discussione, al considerare le ragioni dell’altro come un contributo al progressivo raggiungimento di una posizione corretta: è quanto avviene quando si risponde alle critiche non entrando nel merito del tema, ma respingendole in toto ed accusando su altri livelli, come quando ai fondati rilievi del Governatore della Bce si risponde con altezzoso disdegno affermando che “avvelena il clima”. O quando ai preoccupati conti del presidente dell’Inps si risponde accusando “di far politica”.
E’ la logica del “me ne frego” che non ricorda certo periodi molto costruttivi, la logica in fondo di una società chiusa, dove le critiche vengono fatte risalire a chissà quali complotti, dove ci si appella a un “popolo” che non esiste nella misura in cui non si rispettano gli individui che lo compongono, dove si valutano le scelte sulla base del consenso possibile e non per l’effettiva utilità verso il bene comune.
In questa prospettiva è forse significativo riflettere su quanto scrivono Dario Antiseri, Enzo di Nuoscio e Flavio Felice nel libro “Democrazia avvelenata” (ed. Rubbettino, pagg 194, € 13): “tra le tante difficoltà che sfidano la democrazia all’inizio di questo millennio si profila un nuovo spettro: diventare la “democrazia del pubblico” – di un pubblico ridotto a cliente passivo di abili imbonitori. Assistiamo tutti i giorni a un confronto politico sempre meno concentrato sull’analisi della realtà e sulla progettazione del futuro e sempre più orientato alla ricerca del consenso immediato, attraverso sofisticate strategie comunicative e l’annuncio di promesse risolutive, a portata di mano. È così che i cittadini vengono trattati come “pubblico”, il quale con i nuovi media rischia di diventare sempre più passivo, acritico, influenzabile, con scarse possibilità di controllare le informazioni, senza occasioni di confronto critico, piuttosto istintivo nei giudizi e quindi con basse difese immunitarie per difendersi dalle tante forme di manipolazione e da populisti – altrettanti “masanielli” –, sempre in agguato, soprattutto nei momenti di crisi”.
Viviamo certamente in un momento complesso, un momento in cui si intrecciano globalizzazione, rivoluzione tecnologica ed emergenza ambientale. E non ci sono soluzioni facili, come spesso la politica tenta di far credere, per problemi complessi. Ci sono soluzione sbagliate, soluzioni che generano effetti a catena imprevedibili, soluzioni superficiali e improvvisate, magari adottate per rispettare un contratto stipulato in gran fretta e senza i necessari approfondimenti pur di trovare la strada per conquistare il Governo e mantenere il consenso.
E’ in questa realtà che la democrazia, ahimè non solo in Italia, è esposta ai venti del populismo, una deriva che trasformando gli individui in una massa, di marxiana memoria, non sembra preparare un radioso avvenire. Anche se possiamo sperare che prendere coscienza di questi temi è già fare un passo nella giusta direzione: e in questo il libro di Antiseri, Di Nuoscio e Felice è particolarmente efficace.