In campo universitario l’Italia ha una grandissima tradizione, un travagliato presente e un incerto futuro. La tradizione si fonda sull’esperienza plurisecolare dei maggiori atenei italiani, il presente è rappresentato da un sostanziale declino, il futuro è nelle mani di una difficile riforma che ha molti lati positivi, ma che deve fare i conti con una serie di interessi contrapposti, difficili se non impossibili, da perseguire insieme.
I problemi sono tanti e infatti il dato di fondo è che l’Italia si trova costantemente in posizioni di retroguardia nelle diverse classifiche internazionali. Le ultime riforme attuate sembrano aver aggravato, più che avviato a soluzione i problemi: anche perché hanno accentuato quel carattere di scuola superiore di massa che è certamente positivo nella prospettiva di un sempre più ampio accesso agli studi, ma che tuttavia ha di fatto impedito la selezione dei giovani e la valorizzazione dei centri di eccellenza.
Con ha sottolineato con forza il presidente Emma Marcegaglia all’ultima assemblea di Confindustria “il capitale umano è la risorsa più preziosa per lo sviluppo, ma da noi viene formata troppo poco e male. Non è una questione di livello della spesa ma della sua bassa qualità.”
Il panorama è disarmante: tante università, un esercito di docenti e ricercatori, migliaia di corsi di laurea per affermare l’autonomia più che per rispondere ad effettive esigenze della società e delle imprese in particolare. Con quasi metà degli studenti tra “fuori corso” e inattivi in gran parte destinato ad abbandonare gli studi. Con una fascia di professori anche troppo garantiti e un’altra fascia che rischia l’eterna precarietà.
Un problema antico: già a metà del Settecento Adam Smith criticava “le grandi università inglesi finanziate da fondi pubblici e da lasciti privati, dove i docenti, ricevendo un regolare stipendio, non erano incentivati a fare il loro mestiere con impegno”.
Negli ultimi anni l’università italiana ha portato all’eccesso una perversa convergenza di interessi: quelli delle famiglie e delle studenti, che chiedono scarsa selezione e una laurea il più possibile facile, quelli di molti professori, soddisfatti del posto raggiunto, quelli di rettori e dirigenti, impegnati a cercare finanziamenti puntando sulla quantità più che sulla quantità. A questo si è aggiunta una sovrapposizione di riforme successive che al di là delle buone intenzioni hanno avuto l’effetto di aggravare le difficoltà. Andrea Graziosi, docente all’Università di Napoli, in un saggio (“L’università per tutti”) in cui si fa il punto sulle riforme proposte, attuate e in discussione, annota amaramente che “quello che i riformatori chiedevano è stato fatto tardi e male, ma la crisi dell’università italiana è anche il prodotto delle misure da essi auspicate”.
In pratica l’università italiana è diventata un grande liceo che da una parte non risponde alle esigenze di alta formazione tecnica e dall’altra non lascia spazi a scuole di eccellenza, a istituti di ricerca avanzata, ad atenei capaci di attirare docenti di livello mondiale. “Qualità, internazionalizzazione, rigore”: tre obiettivi che devono essere considerati realistici e per i quali la riforma ora in discussione in Parlamento costituisce almeno in parte un importante passo avanti.
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Andrea Graziosi, dal libro, “L’università per tutti”, ed. Il Mulino, pagg. 172, € 13
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Pubblicato sul Sole 24 Ore del 17 giugno