Se l’economia italiana non è ripiombata in recessione negli ultimi anni una delle ragioni principali sta nella crescita dell’export che ha più che compensato la flessione della domanda interna: il made in Italy è stato così un fattore trainante non solo nei settori della moda o del design, ma anche nella meccanica e nell’automazione, con risultati paragonabili e talvolta superiori a quelli dell’economia tedesca.
L’industria italiana, pur se concentrata sulle piccole e medie imprese, è riuscita a trovare nuovi spazi non solo nell’export di prodotti finiti, ma anche in quelle catene del valore che in misura sempre maggiore collegano funzionalmente le imprese in realtà anche lontane. Il “made in Italy”, sviluppato negli anni del secondo Dopoguerra come semplice indicazione del Paese di origine, il “made in Italy” è diventato negli ultimi quarant’anni sempre più un brand, un marchio, un valore immateriale che aumenta il vantaggio competitivo delle produzioni.
Eppure la fama e l’immagine positiva delle imprese italiane vengono da lontano, almeno da cinquecento anni fa, da quel Rinascimento che è stato per molti aspetti il periodo in cui si sono affermate maggiormente la tecnica e l’estetica oltre ad una capacità di fare impresa fondata sulla manualità e l’artigianato (come ho già ricordato parlando del libro “Rinascimento oggi” https://gianfrancofabi.blog.ilsole24ore.com/2019/12/30/cosi-il-rinascimento-diventa-strategia-di-impresa/ ).
Coma spiega Carlo Maria Belfanti nel libro “La storia culturale del made in Italy” (Ed. il Mulino, pagg. 258, € 22) è proprio dal Rinascimento che nasce l’immagine positiva del “saper fare” italiano basato sull’esperienza delle botteghe e delle corporazioni, esperienza che ha nella moda l’esempio più immediato della continuità storica di artisti ed artigiani di quell’epoca. La storia, l’arte e la cultura vengono così associate ai prodotti italiani ben al di là del loro valore strettamente commerciale e superando la logica delle tradizionali strategie di marketing per sostenere l’export.
Ci si può allora giustamente chiedere come mai dopo il Rinascimento l’Italia e la sua economia abbiano vissuto lunghi periodi di declino. Il libro di Belfanti individua la ragione in quella che sommariamente potremmo chiamare l’irrilevanza politica della realtà italiana, divisa e frammentata, rispetto alle grandi potenze imperiali europee. Il Rinascimento è rimasto come un punto di riferimento, continuamente ammirato e apprezzato all’estero, ma con sempre minore incidenza a livello economico, finanziario e produttivo.
Solo nel Novecento, in particolare con la partecipazione alle Esposizioni Universali, il made in Italy ha riconquistato prestigio e ammirazione diventando progressivamente un fattore fondamentale per tutto il manifatturiero italiano e per il suo export. Cinque secoli di storia possono insegnare molto sulla realtà dell’economia italiana, una realtà che ha saputo mantenere la rotta negli ultimi anni in cui una globalizzazione galoppante e disordinata ha creato molte opportunità, ma anche rilevanti rischi.
Tra i fattori di successo del “miracolo” degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso vi è stata infati l’apertura all’Europa e ai mercati internazionali. E in questo Terzo millennio sarebbe illusorio spingere per nuove chiusure e non partecipare a consolidare quella solidarietà europea che è già stata e può continuare ad essere un elemento centrale di uno sviluppo reale e sostenibile.