Le vicende politiche delle ultime settimane, e in particolare la difficoltà di trovare una maggioranza che sostenga un nuovo Governo hanno dato argomento a molte lettere dei lettori del Sole 24 Ore. Tra queste martedì 24 ho scelto quella di Giovanni Giorni che qui riporto con la mia risposta.
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Gentile Fabi, le vicende politiche che accompagnano la formazione di un nuovo Governo mi sembrano, almeno per ora, giustificare ampiamente il malessere dei cittadini verso la politica. Si è parlato e litigato solo sul diritto dell’uno o dell’altro di essere incaricato per diventare presidente del Consiglio con un’unica parola, il cambiamento, che mi è sembrata accomunare le due parti uscite in qualche modo vincitrici dalla competizione elettorale. Certo ci sono molte cose che in questa Italia non funzionano, ma ce ne sono altre che meritano di essere mantenute e consolidate. Ma quello che le chiedo è perché la coalizione che ha vinto ottenendo il 37% dei voti non abbia il naturale diritto di guidare il Governo.
Giovanni Giorni
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Caro Giorni, innanzitutto, nonostante si faccia largamente uso di questa metafora, non mi pare che una consultazione elettorale possa essere paragonata ad una competizione sportiva.
Certo ci sono partiti o coalizionie che guadagnano voti e che aumentano (o perdono) consensi popolari, ma la finalità del voto non è quella di assegnare una medaglia o stabilire un primato, ma è quella di eleggere un Parlamento che ha il compito di dare la fiducia al Governo e di approvare le leggi nell’interesse dell’intero Paese. Negli equilibri costituzionali che l’Italia si è data, e che sono stati sostanzialmente riconfermati nel referendum del 4 dicembre 2016, il presidente della Repubblica non è per nulla obbligato ad affidare l’incarico di formare il nuovo Governo alla formazione politica che ha ottenuto più voti. Ma ha il dovere implicito di indicare una persona che abbia la possibilità concreta di ottenere il voto favorevole della maggioranza dei deputati e dei senatori. E non mancano nel passato esempi in questa direzione. La Democrazia cristiana, per esempio, è stata fino agli anni ’90 il partito di maggioranza relativa. Nelle elezioni del 1979 ottenne poco più del 38% dei voti, il Partito comunista il 30,4%. Ebbene in quella legislatura dopo i Governi guidati da Francesco Cossiga ed Arnaldo Forlani l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, nel 1981diede l’incarico di formare un nuovo governo a Giovanni Spadolini, senatore (peraltro eletto come indipendente) di un Partito repubblicano che aveva avuto solo il 3% dei voti. L’Italia si trovava in quegli anni in una situazione estremamente complessa. C’era una crisi economica, un’inflazione galoppante, un crescente passivo sia nel bilancio pubblico sia nei conti con l’estero. E c’era un terrorismo che sembrava inarrestabile. Ma a portare la situazione politica ai limiti dell’ingovernabilità fu lo scandalo della P2 con la pubblicazione degli elenchi segreti degli aderenti alla loggia massonica di Licio Gelli. Spadolini ebbe l’appoggio dell’allora tradizionale pentapartito, restò in carica un anno e mezzo con due Esecutivi uno in fila all’altro, e furono poi i litigi e le tensioni tra democristiani e socialisti a decretarne la fine. Si può ricordare che nella legislatura successiva, dopo le elezioni del 1983, formò il primo Governo Bettino Craxi a capo di un partito socialista che aveva ottenuto solo l’11% dei voti. E nella storia della Repubblica non mancano i Governi tecnici, presieduti da personalità chiamate dall’esterno del sistema politico per affrontare situazioni di emergenza: Carlo Azeglio Ciampi nel 1992, Lamberto Dini nel 1995 e Mario Monti nel 2011. Come dire: non c’è un diritto delle forze di maggioranza relativa a guidare il Governo, ma c’è un dovere di queste stesse forze a cercare le alleanze necessarie perché un Governo possa ottenere la fiducia.