Uomini e donne: una specificità da riscoprire. Si è scritto, giustamente, molto sulla partecipazione al lavoro degli uomini e delle donne. Delle differenze e dei problemi che in Italia, ma anche in tutti i paesi occidentali, si presentano ad ogni analisi sociale. Un tema ritornato d’attualità, e poi rapidamente dimenticato, con l’assegnazione del premio Nobel per l’economia alla professoressa americana Claudia Goldin, docente all’Università di Harvard. Un premio la cui motivazione ha messo in luce le lunghe ricerche effettuate appunto per studiare la presenza delle donne nel mondo del lavoro, una presenza che si caratterizza più o meno dappertutto, con una minore partecipazione e compensi più bassi rispetto agli uomini.
Un tema questo spesso presentato come un problema di affrontare e risolvere per raggiungere un’effettiva parità tra i sessi. Ebbene Goldin dopo anni di studio ha concluso che nella cultura del lavoro contemporanea, contraddistinta insieme da efficienza e disponibilità, le donne hanno minori occasioni rispetto ai maschi.
I divari di genere deriverebbero da un’interazione di diversi fattori: tra questi, le norme sociali, le scoperte tecnologiche, le strutture istituzionali, le impostazioni politiche, le abitudini locali, i valori etici.
Già. Manca solo una riflessione. I divari sono anche effetto del fatto che c’è una diversità sostanziale tra gli uomini e le donne, una diversità che è un valore da valorizzare e non un handicap da annullare. Diversità che non vuol certo dire maggiore o minore dignità. Se quindi è più che giusto che si consideri ingiustificabile una differenza di compensi per uno stesso lavoro, appare del tutto naturale che la partecipazione al lavoro sia differente tra gli uomini e le donne almeno fino a quando si riconosce alla famiglia un valore da difendere e si vuole lasciare alle donne il benemerito e impegnativo compito di mettere al mondo i bambini.
Va certamente bene la promozione del lavoro femminile, anche perché i paesi in cui la partecipazione femminile è maggiore sono anche quelli che hanno il più elevato indice di natalità. Ma la ricerca di una assoluta uguaglianza di genere, che peraltro è uno degli obiettivi dell’Agenda Onu per il 2030, appare quantomeno temeraria.
Perché appare illogico e controproducente annullare le differenze anche se tenta di imporsi una mentalità “fluida” che vorrebbe dimenticare un dato di natura. Proprio nel mondo del lavoro sarebbe invece importante e costruttivo valorizzare la specificità femminile. Una recente indagine del Censis, uno dei maggiori osservatori sociali del paese, ha sottolineato che “le donne sono più degli uomini, studiano di più e spesso hanno risultati scolastici migliori dei loro coetanei, tanto da costituire oggi una fetta preponderante del capitale intellettuale del paese; ma lavorano di meno e, soprattutto, sono meno valorizzate sul posto di lavoro: il loro talento è dunque mortificato, con conseguenze che pesano sul vissuto delle singole donne ma anche sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose”.
Qualcosa si sta comunque muovendo: la legge 162/2021 ha introdotto la certificazione della parità di genere, uno strumento che permette alle imprese che promuovono il lavoro femminile di avere dei vantaggi fiscali di fronte a misure che favoriscano le pari opportunità, la parità reddituale, il pari accesso alle opportunità di carriera e formazione, la piena attuazione del congedo di paternità.
Uomini e donne, una specificità da riscoprire quindi con un’attenzione positiva, a cui dovrebbero affiancarsi misure che aiutino il mondo femminile (e quello maschile) ad affermare la propria specificità. Le persone non sono macchine e non ci può essere astratta parità nel modo di vivere i sentimenti e le emozioni.