La gerarchia riparte dal basso (cioè dalle persone). Nella grande trasformazione delle imprese e dei sistemi economici non possono che cambiare le strutture organizzative e le formule di governo. E anche il concetto stesso di gerarchia, che è stato e per molti aspetti rimane un caposaldo della governance, non può non valorizzare le nuove dimensioni magari rompendo la tradizionale camicia di forza che lo distingueva.
Non è senza rilievo quanto sottolinea il vocabolario Treccani a proposito di gerarchia: “In origine, soprattutto nell’àmbito cristiano greco, l’amministrazione delle cose sacre, in quanto comportava un ordine scalare, e l’ordine stesso. Di qui, nel diritto canonico, gerarchia ecclesiastica, l’ordinamento dei gradi e delle funzioni nella Chiesa, e il principio stesso della subordinazione delle autorità inferiori alle superiori”.
E infatti la gerarchia ha una sua sacralità, esige dalle persone un rispetto che spesso va al di là della competenza, del merito, della visione. E in effetti la gerarchia ha una sua funzionalità: in ogni organizzazione è importante sapere chi fa che cosa, secondo un mansionario che dovrebbe garantire il massimo di efficienza e di capacità di raggiungere gli obiettivi.
Ma in una società dinamica, a forte tasso di innovazione in ogni gradino della catena del valore, anche la gerarchia non può rimanere un totem a cui inchinarsi. Può sembrare una contraddizione: pensare che un elemento destinato a dare stabilità ad una organizzazione possa essere messo in discussione con il rischio di perdere efficacia e risultati.
La sfida non è facile, ma indispensabile. Lo dimostra il libro di Marina Capizzi “Non morire di gerarchia: ridisegnare il campo da gioco per evolvere come persone, team e organizzazioni” (Ed. Franco Angeli, pagg. 270, € 27). L’autrice co-founder di Primate, società benefit e B corp, è consulente di evoluzione organizzativa, executive coach, speaker e scrittrice e ha sviluppato una forte competenza nella cultura, nella leadership, nell’evoluzione delle dimensioni manageriali.
Il libro parte dalla considerazione che la gerarchia è connaturata nell’esperienza umana e si sviluppa analizzando i percorsi che possono portare quello che può apparire un vincolo a diventare “una risorsa di connessione”.
Non si tratta di compiere una rivoluzione, ma di muoversi “a piccoli passi” verso una dimensione più aperta e costruttiva dei rapporti umani all’interno delle organizzazioni. “Più che il cambiamento – osserva Capizzi – perseguiamo la trasformazione: è fondamentale che il percorso sia fatto direttamente dalle persone, sia su se stesse, sia sul contesto”. E ancora: “Serve la pienezza delle persone, non solo le loro competenze professionali. Lo strumento principale è la fiducia nella nostra fame di connessione. Di fiducia ne parliamo sempre. Qui si tratta di metterla in campo”.
Ecco allora come non si parla più di gerarchia, ma al plurale di “gerarchie”: organizzative, che disegnino nuove logiche decisioni; mentali, che ci aiutino a inquadrare diversamente quanto già conosciamo; relazionali, che favoriscano l’evoluzione delle persone e del team; culturali che ci connettano ai mutamenti; di metodo, che ci rendano veloci e incisivi.
Un percorso in cui la gerarchia riparte dal basso (cioè dalle persone), un percorso che ha come stella polare l’obiettivo dell’impresa, quello che oggi va di moda definire “purpose”, un obiettivo che va condiviso, che deve diventare cultura e nello stesso tempo passione. Le organizzazioni diventano così “corpi viventi” capaci di far diventare la gerarchia uno strumento da sfruttare e non un alibi per fare sempre le stesse cose dietro il comodo paravento del “si è sempre fatto così”.