Caro Fabi, nell’estate di qualche anno fa un suo editoriale sul Sole 24 Ore aveva come titolo “Trovare il coraggio di abolire le province”. Ora c’è un progetto per abolire le province più piccole, come era stato peraltro proposto anche dal precedente Governo. Le sembra un passo avanti?
Carmine Leo
Napoli
Gentile Carmine, la proposta di abolire solo alcune province non è certo un passo avanti e per di più va nella direzione sbagliata. In primo luogo perché cercare di tagliare solo le province più piccole, accorpandole a quelle vicine, vuol dire avviare un contenzioso infinito, tante dispute campanilistiche socialmente pericolose ed economicamente inutili.
In secondo luogo perché attuare solo piccoli ritocchi e non modificare la struttura dello Stato vuol dire perpetuare una situazione in cui le logiche degli interessi politici hanno il sopravvento sulla razionalità e sul buon senso.
L’Italia ha bisogno invece di rivedere profondamente la propria architettura istituzionale per ridurre non solo la spesa pubblica, ma anche l’incidenza dello Stato nella gestione dell’economia. Sarebbe allora utile abolire non le province come entità geografica o territoriale, ma “la provincia” come entità politica e in particolar modo tutti i presidenti, le giunte, i consigli provinciali, affidandone le competenze in parte ai Comuni, in parte alle Regioni. E questo porterebbe con sé anche una graduale razionalizzazione degli uffici amministrativi periferici che potrebbero essere organizzati su dimensioni di maggiore razionalità ed efficienza. Le attuali funzioni delle province, come quelle sugli edifici scolastici, sulle strade, sul ripopolamento di laghi alpini potrebbero essere affidate tranquillamente agli altri enti senza dimenticare che si tratta in gran parte di competenze di carattere tecnico che devono rispondere a logiche di efficienza più che di visione politica.
Certo, una riforma di questo tipo richiederebbe un intervento costituzionale, ma se ci fosse la necessaria volontà politica basterebbero poco più di sei mesi per modificare l’articolo 114 e i successivi. Sarebbe una decisione che consentirebbe non tanto di risparmiare i compensi dei politici, ma soprattutto di abolire altrettanti centri di costo e di spesa e, magari, di cancellare anche le imposte che servono a finanziarli.
Detto questo bisogna francamente ammettere che la battaglia per l’abolizione delle province non ha praticamente alcuna possibilità di arrivare al successo. Il nostro Paese sembra ormai arroccato alla difesa dell’esistente, anche se tutti sono convinti (a parole) che sarebbe necessario fare un vero salto di qualità. Ma anche nelle riforme vale la sindrome Nimby (Not in my back yard, Non nel mio giardino): bene i cambiamenti e le nuove iniziative, ma non azzardatevi a toccare qualcosa che mi tocchi da vicino.
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lettera (e risposta) pubblicata sul Sole 24 Ore del 3 luglio 2012
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Il Governo ha presentato nei giorni scorsi il decreto sulla spendig review che contiene anche l'abolizione di circa la metà delle province. Le prime reazioni hanno già dimostrato che sarà un percorso molto difficile ed impervio. Ammesso che possa arrivare a conclusione il rischio concreto sarà quello di complicare le cose senza diminuire la spesa. Facciamo un esempio: accorpiamo in un'unica provincia Pisa e Livorno. Sarà inevitabile lasciare alcuni uffici in una città e altri nell'altra e avere quindi una nuova provincia a due teste e questo non faciliterà certo la vita dei cittadini
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8.7.2012