La felicità e il lavoro sono due temi che di solito vanno ognuno per la sua strada. Viaggiando su rotte che difficilmente appaiono destinate a incontrarsi. Anche perchè il lavoro tradizionale è più un dovere che un piacere. Il più esplicito è stato probabilmente San Paolo rivolgendosi ai cristiani di Tessalonica: “Chi non lavora non mangia”. Un’espressione ripresa venti secoli dopo da Celentano nella sua ancora più drammatica espressione: “Chi non lavora non fa l’amore”. Il lavoro è essenziale all’uomo, un lavoro che è da sempre una dimensione con molteplici facce. Il lavoro come condanna nelle prime parole della Genesi dopo il peccato originale. Il lavoro come schiavitù per secoli e secoli ina società divisa in caste e ordini sovrani. Il lavoro come obbligo sociale.
Ma anche il lavoro come identità in una Repubblica che non a caso è fondata proprio sul lavoro. Il lavoro come espressione della propria identità e come partecipazione creativa allo sviluppo come sottolinea l’enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II pubblicata nel settembre dell’81: “L’uomo, mediante il lavoro, – sono le prime parole dell’enciclica – deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all’incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli”.
Il concetto di lavoro ne ha così fatta di strada. Soprattutto negli ultimi due secoli, dalla rivoluzione industriale in poi, il lavoro si è progressivamente trasformato. Da una parte grazie alle lotte operaie, all’impegno per sempre migliori condizioni di impiego. Dall’altra grazie all’automazione, all’informatica, ai robot che in molti casi hanno preso il posto dei lavoratori negli impieghi più ripetitivi e talvolta anche più pericolosi.
C’è stata di pari passo anche un’evoluzione manageriale, un sempre maggior riconoscimento della dignità dei lavoratori anche nella convinzione che una più ampia partecipazione può essere un elemento vincente nell’efficienza e nella competitività dell’impresa. E’ stato così che è stata superata quella prospettiva tayloristica (da Frederick Taylor, 1911) che predicava l’organizzazione scientifica del lavoro, in pratica la frammentazione dell’impegno nella catena di montaggio. E si è arrivati all’Olocrazia (Brian Robertson, 2015) con il superamento del lavoro subalterno mettendo al centro non più la gerarchia, ma le capacità della persona.
Ma non ci fermiamo qui. Perché il passo più significativo è quello compiuto da Paolo Iacci e Umberto Galimberti nel loro libro “Dialogo sul lavoro e la felicità” (Ed. Egea, pagg. 120, € 14). Iacci, consulente di direzione e docente di Gestione delle risorse umane, sollecita le riflessioni di un filosofo, accademico e psicanalista come Galimberti per un’analisi in cui non mancano elementi critici, come la pervasività della tecnica, ma in cui proprio la tecnologia può offrire la possibilità di ritrovare nel lavoro non solo una precisa identità, ma anche una progressiva realizzazione di un obiettivo essenziale della natura umana, la ricerca della felicità.
La possibilità è molto ben delineata: passare dal “lavoro come produzione” al “lavoro come servizio”. Quindi non solo realizzare qualcosa per rispondere ai bisogni concreti delle persone, ma anche poter praticare tutte quelle attività di relazione, di cura, di cultura per “cercare di considerare finalmente l’uomo come fine e non solo come mezzo”: in pratica riscoprire la morale profonda di Immanuel Kant che si completa con l’etica della responsabilità di Max Weber. In un cammino in cui si può incontrare la felicità.
Invita a molte riflessioni questo dialogo tra Iacci e Galimberti. Con una considerazione di fondo: viviamo in un’epoca che ha tante problematiche, ma che è anche un tempo di grandi opportunità. Per questo è bene porsi le domande giuste. Le risposte possono arrivare dall’impegno di ciascuno di noi.