Ci sono alcuni dati di fondo da cui non bisognerebbe prescindere prima di proporre ed attuare particolari misure di politica economica, soprattutto in un campo altrettanto importante quanto delicato come quello delle pensioni. Ebbene in Italia di riforme delle pensioni si parla praticamente ad ogni avvicendamento governativo, (e sono stati tanti), ma solo in poche occasioni con l’intento di dare stabilità e sostenibilità al sistema. Il più delle volte le riforme hanno mirato a favorire la ricerca del consenso e a privilegiare particolari posizioni facendo pagare gli oneri alle generazioni future.
Tra le riforme che hanno cercato di dare un equilibrio al sistema si possono ricordare quella del 1992, in cui si è introdotto il metodo di calcolo contributivo, riforma promossa dall’allora presidente del Consiglio, Lamberto Dini, e quella dell’autunno 2011 elaborata sotto la spinta dell’emergenza finanziaria dall’allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Quest’ultima era basata soprattutto sull’aumento dell’età pensionabile.
La storia recente ci ha offerto, con il Governo Lega-5S, una nuova riforma delle pensioni, la famosa quota 100, per superare proprio quella legge Fornero che, anche se, indicata da Salvini come il peggiore di tutti i mali, nel 2011 aveva contribuito a far uscire l’Italia da una delle crisi finanziarie più complesse.
Ebbene quota 100 ha aggravato molti problemi, non solo di finanza pubblica. Il welfare italiano infatti è da molto tempo sbilanciato verso il sostegno della terza età e dei pensionati. Politica encomiabile se non sacrificassero risorse che potrebbero essere dedicate ai più giovani. Con un particolare non da poco. L’Italia fortunatamente è uno dei paesi dove la speranza di vita è più alta, si arriva oltre gli 82 anni, e dove è più avanzato l’ingresso effettivo nella terza età. Tra i 65 e almeno i 75 anni si parla ormai di longevità attiva e la partecipazione, ancorchè in forme diverse, al mondo del lavoro può costituire un elemento positivo anche per mantenere una buona salute fisica e mentale.
C’è poi, soprattutto in prospettiva, un problema di sostenibilità economica del sistema pensionistico: non solo gli anziani, fortunatamente, vivono più a lungo e in buona salute, ma diminuisce il numero dei giovani che entrano nel mondo del lavoro e quindi che pagano i contributi necessari per sostenere il sistema.
Un intervento sulle pensioni quindi dovrebbe non solo puntare ad un aumento dell’età media di pensionamento (il contrario quindi di quota 100), ma anche e soprattutto ad introdurre elementi di flessibilità che aiutino le persone a rimanere inserite nella vita sociale: lavori a tempo parziale, affiancamento a giovani apprendisti, staffetta generazionale. Nella logica di considerare il lavoro non come una gabbia o una schiavitù, ma qualcosa di positivo che può far crescere la persona, le singole imprese e la comunità.
Quota 100 invece ha facilitato l’uscita anticipata dal posto di lavoro, senza nessun meccanismo di sostituzione graduale, e con un palese incentivo al lavoro nero con il divieto di cumulo con eventuali nuovi impieghi.
Ora si discute se modificare subito la legge o lasciarla esaurire dopo i tre anni già previsti di sperimentazione. Sembra che prenda piede quest’ultima strada soprattutto perché il ricorso a questa possibilità di uscita anticipata si è sempre più ridotto nel corso dei mesi. Da una parte perché comunque si ha una diminuzione della rendita rispetto a quanto si potrebbe avere restando qualche anno in più al lavoro, dall’altra perché appaiono molto penalizzanti i vincoli ad un eventuale nuovo lavoro.
Quota 100 resta comunque l’esempio di una politica fine a se stessa, con logiche politico-personalistiche e senza valutazioni realistiche degli impatti sociali ed economici a medio termine.