“Family up: il giovane imprenditore tra continuità e cambiamento”, questo il titolo del libro edito da Guerininext, curato da Valentina Lazzarotti, professore nella scuola di ingegneria gestionale della Liuc (Università Carlo Cattaneo di Castellanza) e Federico Visconti, rettore della stessa università. Il libro racconta le esperienze di giovani che hanno affrontato in prima persona il passaggio generazionale nelle “loro” imprese familiari. Ecco la prefazione che ho avuto l’onore di scrivere. E che vuol essere un invito a leggere tutto il libro.
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Family up – la prefazione di Gianfranco Fabi
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Per diventare imprenditori non è indispensabile nascere in una famiglia di imprenditori. Ma è un’eventualità che indubbiamente aiuta. Soprattutto in Italia dove il modello dell’impresa familiare è ancora largamente diffuso e dove il fare impresa non è solo il mettere a frutto un’idea, ma è soprattutto superare tutta una serie di ostacoli che sembrano fatti apposta per scoraggiare i volenterosi e gli intraprendenti.
Perché quello dell’imprenditore non è solo un mestiere difficile, ma è anche una sfida continua ad una pericolosa mentalità che continua a dominare il pensiero comune: quella di chi guarda a chi possiede e guida un’impresa con i più polverosi stereotipi marxiani. A cinquant’anni dal ’68 ci sono ancora diffusi luoghi comuni dove si pensa allo sfruttamento del lavoro altrui, all’impresa come luogo di inevitabili conflitti, e come minimo all’imprenditore come inveterato evasore fiscale.
Ma è per fortuna è ancora valido quanto all’inizio degli anni ’60 Luigi Einaudi scrisse per festeggiare un’azienda della sua terra piemontese: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi.”
L’Italia resta quindi il regno dei paradossi. Un paese che deve la sua ricchezza, la sua crescita, il suo benessere alla fitta trama di aziende familiari che continuano a farne la seconda realtà manifatturiera d’Europa. Ma un paese che continua a considerare le imprese, per dirla con una famosa frase di Churchill, “una tigre da abbattere o una mucca da mungere”.
Per questo è importante ogni passo avanti nel conoscere e far conoscere la vera realtà delle imprese e degli imprenditori. Per questo è positivo guardare ad una dimensione, come quella delle imprese familiari, che, pur in una continua e tumultuosa evoluzione, continua a mettere a frutto valori e caratteri particolarmente rilevanti.
Questo libro, con le ricerche che ne stanno alla base, offre costruttivamente una serie di riflessioni che nascono e si sviluppano proprio guardando ai giovani inseriti nelle aziende familiari. E’ un percorso, una narrazione per usare un termine di moda, che parte dalle storie di giovani imprenditori che si sono fatti le ossa nell’Università Carlo Cattaneo e poi sono entrati ai più alti livelli nelle aziende di famiglia. Sono tutte esperienze in cui c’è quindi in primo piano il valore della persona, la sua esperienza, il suo carattere, la sua volontà. Con un’analisi che mette in rilievo non tanto e non solo i profili e i risultati quantitativi, ma soprattutto quella “ricchezza o patrimonio socio-emozionale” che caratterizza in varia misura la dimensione dell’imprenditore all’interno dell’impresa familiare.
E’ un metodo di ricerca, come si ricorda nei diversi saggi, che mira a portare all’attenzione sia l’evoluzione del pensiero economico-aziendale, sia l’esperienza concreta e positiva di imprese che hanno saputo diventare leader non solo nel fatturato, ma anche e soprattutto nella capacità di creare valore sociale.
Il pensiero e le teorie economiche trovano in queste pagine la loro verifica empirica. Un pensiero che nasce da lontano perché l’Italia ha avuto le sue scuole di avanguardia nel Sette/Ottocento proprio con Pietro Verri, Cesare Beccaria, Antonio Genovesi e, naturalmente Carlo Cattaneo. Alla base delle loro analisi quello stretto collegamento tra economia e società, tra sviluppo e territorio, che costituiscono tuttora elementi portanti di una visione che pone al centro la responsabilità della persona, in ogni passo della sua presenza sociale.
E in questa prospettiva si colloca l’esperienza e la testimonianza nell’immediato dopoguerra di Adriano Olivetti con la sua ricerca appassionata di una fabbrica che diventasse comunità, di una logica del lavoro fondata sulla partecipazione, sulla capacità di richiamare ogni persona alle proprie responsabilità. E non si può non ricordare come sulla scia di questi valori, in gran parte messi in pratica nell’esperienza delle fabbriche Olivetti di quegli anni, si è collocata poi l’analisi e la visione di un grande economista come Giorgio Fuà
Per Fuà il fine dell’imprenditore non è quello di massimizzare il profitto, ma di organizzare attorno alla sua figura di leader collaboratori che possano condividere i valori, gli obiettivi e le finalità dell’azienda. Per l’economista marchigiano, così come per Adriano Olivetti, la missione dell’imprenditore è essenzialmente quella di elaborare non tanto un processo economico, quanto una dimensione culturale. C’è così la duplice prospettiva di una grande attenzione al territorio e insieme una forte denuncia del rischio continuo di essere spiazzati dalle tentazioni della speculazione finanziaria e degli opportunismi istituzionali.
“La caratteristica di un imprenditore – scriveva Fuà – è dare un senso e uno scopo al lavoro altrui. Gli imprenditori-leader non puntano solo al profitto, ma amano il loro prodotto, sanno motivare i loro collaboratori senza autoritarismo, cercano di far crescere l’ambiente che li ha visti crescere”.
Espressioni che sono riecheggiate nella prolusione di Vittorio Coda all’apertura dell’anno accademico 16/17 della Liuc, Coda ha sottolineato come sia necessario “concepire l’azienda come “comunità di persone” il che richiede in chi la guida una dedizione che si esplica nel creare “comunità di lavoro” per uno scopo comune. Così si innesca il circuito virtuoso “soddisfazione dei clienti-valorizzazione dei collaboratori” e questo diventa l’asse portante su cui innestare gli obiettivi di redditività e sviluppo nonché quelli di soddisfazione di ogni altro interlocutore”.
Un grande maestro di strategie aziendali, come Coda, non ha avuto timore di usare in quell’occasione una parola politicamente scorretta nell’immagine dell’impresa: la parola “armonia”.
I nuovi imprenditori, soprattutto in questa fase di innovazioni a 360°, non possono che essere testimoni di armonia. Testimoni di un’educazione, come quella che hanno sperimentato alla Liuc, in cui la differenza di visioni diventa un’opportunità di crescita, in cui il confronto di esperienze può far nascere nuove opportunità, in cui i diversi percorsi e le differenti realtà aziendali fanno comunque emergere comuni valori di fondo. Non solo per raccogliere e tramandare un patrimonio familiare, ma anche per innestare sulle solide radici della tradizione uno spirito di innovazione costruttiva, una visione aperta e moderna dell’impresa, una prospettiva capace di superare resistenze e pregiudizi legati al passato. E questo è particolarmente importante per scuotere un paese come l’Italia dove è fin troppo frequente giustificare la proprie scelte dicendo: “Si è sempre fatto così!”
Queste pagine sono allora un richiamo, un’analisi e tante testimonianze. Non offrono soluzioni prefabbricate, ma tracciano con efficacia un metodo: quello di un’educazione aperta all’innovazione e alla società. Perché per gestire un’impresa potrebbe bastare affidarsi alle teorie dei manuali di management, ma per creare e far crescere imprese di successo è necessario praticare giorno per giorno la logica del cambiamento e saper dare valore a tutti gli stakeholder: i dipendenti-collaboratori innanzitutto, e poi i clienti, i fornitori, le istituzioni, le molteplici realtà del territorio. E tanto meglio se nel territorio ci sono delle buone università.