La lettera di un lettore pubblicata martedì 8 dicembre sul Sole 24 Ore con una mia risposta riguardava il tema rilanciato dal ministro Poletti sull’esigenza di superare i vecchi schemi dei contratti in particolar modo riguardo all’orario di lavoro.
Ecco la lettera:
Chi le scrive è un sindacalista ormai vicino alla pensione. Ho vissuto gli anni delle crisi economiche, ma anche quelli di molti accordi innovativi. Vorrei tornare sulle recenti dichiarazioni del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, sulla necessità di superare il collegamento tra salario e orario di lavoro e vorrei ricordare a questo proposito come sia stato un punto fermo nei decenni passati in molte battaglie sindacali, soprattutto a livello aziendale, la volontà di superare la retribuzione a cottimo considerata come un’ingiusta pressione sull’attività lavorativa.
Senza dimenticare gli elementi di controllo diretto e continuo dei lavoratori. Non vedo quindi come sia possibile pensare di tornare al passato vanificando importanti passi avanti compiuti grazie al sindacato in difesa della dignità dei lavoratori. L’orario di lavoro contrattuale resta una garanzia e non può essere considerato un “vecchio attrezzo”.
Ed ecco la mia risposta:
Gentile lettore e sindacalista, la polemica sul “vecchio attrezzo” dei contratti incentrati sull’ora-lavoro è sembrata una tempesta in un bicchier d’acqua risolta con uno scambio di battute. Ma il problema portato all’attenzione del ministro Poletti non è stato sicuramente un tentativo di cancellare le conquiste sindacali e tanto meno quello di mettere in dubbio la dignità dei lavoratori. E mi sembra sbagliato giudicare con i vecchi schemi dell’ideologia una dinamica sociale ed economica che ha le sue basi soprattutto nella grandi novità insite nella rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo. Non si tratta infatti di reintrodurre vecchi modelli, come quelli del cottimo, ma di prendere atto che rispetto a cinquant’anni fa il mondo, compreso quello del lavoro, è profondamente cambiato. Abbiamo avuto la rivoluzione di internet e negli ultimi dieci quella della portabilità dei dispositivi che permettono la connessione praticamente ovunque nel mondo. Ecco cosa scrive a questo proposito il XX Rapporto sull’economia globale e l’Italia curato dal Centro Einaudi, sotto la guida di Mario Deaglio, e pubblicato da Guerini e associati (“La ripresa, e se toccasse a noi”, pagg. 226, € 21): “Oggi il connubio tra portabilità dei dispositivi elettronici e diffusione della connettività wireless (ossia la possibilità di comunicazioni costanti, estremamente flessibili, attraverso Internet e con un costo marginale pressoché nullo) rende molto più estesa –e anche ambigua – la definizione di “luogo” o di “posto” di lavoro e disintegra il concetto di orario, uno dei capisaldi del paradigma corrente”.
Certo, non tutto è cambiato: ci sono lavori e professioni che sono rimasti uguali e che rimarranno uguali ancora per decenni. Ma ci sono anche lavori e professioni che sono radicalmente cambiati, alcuni sono scomparsi, altri sono sorti dal nulla, creando non solo problemi, ma anche nuove opportunità che per essere valorizzate, soprattutto per i giovani, non possono essere inquadrate negli schemi del passato. Per questo è necessario un atteggiamento costruttivo verso l’innovazione. Da parte di tutti. Soprattutto da parte di chi ad ogni livello vuole comunque far parte di quella che viene chiamata classe dirigente.
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Dopo la pubblicazione sono subito arrivate critiche e commenti, peraltro tutti brevi e drastici, al mio indirizzo (gianfranco.fabi@ilsole24ore.com) equamente divise tra difensori delle tradizionali garanzie e sostenitori della fondatezza delle riflessioni del ministro. A dimostrazione del fatto che il dividersi in due fazioni è ormai una costante del modo di pensare: si sente quasi il bisogno di dividersi in favorevoli o contrari. E invece spesso il problema, come in questo caso sull’orario di lavoro, non è quello di prendere posizione, ma soprattutto quello di mettere a fuoco, di capire fino in fondo il problema. E allora mi sembra di poter dire che la voglia di approfondire temi importanti, magari con il rischio di cambiare idea durante la riflessione, è molto meno diffusa dell’impulso a schierarsi.