La piccola impresa, non solo un mito

Nei giorni scorsi un lettore del Sole 24 Ore ha scritto per la rubrica che ospita le mie risposte ogni martedì sottolineando  come i dati sull’economia italiana siano sempre più allarmanti. Le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, faticano sempre di più ad affrontare i mercati. Provvedimenti come quelli sollecitati dal Sole 24 Ore per lo sblocco dei pagamenti della Pubblica amministrazione sono certamente indispensabili. Ma non bisogna forse chiedersi, chiudeva la lettera, se non siamo di fronte ad una crisi ormai strutturale, in pratica al tramonto ineluttabile del modello italiano di impresa famigliare? 

Ecco la mia risposta: "Gentile lettore, lo scenario economico in cui ci muoviamo è certamente negativo, ma non mancano significative zone di sereno. Pensiamo alle esportazioni, in crescita anche in settori, come quello dei macchinari, che richiedono forte innovazione. La crisi è forte soprattutto sul mercato interno dove la caduta della domanda è provocata non solo dalle politiche fiscali fortemente restrittive, ma anche da un calo demografico a cui non si dedica sufficiente attenzione. Quanto alle piccole imprese sarebbe una sciagura se non si riconoscesse più la loro importanza non solo come fattore produttivo, ma come elemento fondamentale di quella motivazione alla crescita che è alla base di ogni progresso economico e sociale. Come scrive Giulio Sapelli nel suo ultimo libro (“Elogio della piccola impresa”, Ed. Il Mulino, pagg. 120, € 11): “Non ci sono formule matematiche per definire e per capire queste imprese: ci sono le regole della vita in comunità, della cultura del lavoro e della fedeltà al patto che si instaura tra l’imprenditore e coloro che con lui lavorano. E che sono pronti a seguire non tanto lui, ma soprattutto l’impresa con lui, l’impresa che dopo anni di lavoro diventa un’entità condivisa moralmente prima che giuridicamente”. In questa prospettiva è necessario aiutare le imprese innanzitutto a nascere e poi, naturalmente, a crescere. Ma non ci possono essere modelli da imporre o teoremi a cui costringere le imprese ad adeguarsi. C’è invece bisogno di un terreno fertile e accogliente in cui i valori morali del lavoro possano esprimersi nella loro pienezza con la massima libertà. Fuor di retorica questo vuol dire che la pubblica amministrazione così come le banche, la politica così come i sindacati, devono saper guardare alle imprese con fiducia costruttiva e spirito di collaborazione, e magari di servizio. Dimostrando così che l’Italia ha ancora grandi potenzialità."

In questo spazio, non così limitato come quello sulla carta stampata, aggiungo un'osservazione: in Italia esiste un diffuso Dna imprenditoriale, non solo nell'industria, ma anche nel commercio, nei servizi, in agricoltura. Lo sviluppo tecnologico, soprattutto sul fronte delle comunicazioni, permette di abbassare di molto i capitali necessari per creare un'impresa. Il problema di fondo resta lo scenario esterno, ancora privo di una politica economica veramente capace di mettere le imprese al centro dell'interesse. Come dimostra la triste vicenda dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione.