Può sempre aver ragione Churchill, secondo cui la democrazia è il peggiore sistema di governo eccetto tutti gli altri, ma resta il fatto che negli ultimi anni il sistema rappresentativo si è trovato di fronte ad una crisi strisciante, ma sempre più evidente. E non solo in Italia, se questa può essere una consolazione. Un primo elemento che merita essere messo in luce nell’analisi del politologo americano Bernard Manin (Principi del governo rappresentativo, ed Il Mulino, pagg. 294, € 30) è infatti proprio quello che l’Italia non è un’anomalia. Ha un elemento in più. Il fatto di un imprenditore mediatico, come Silvio Berlusconi, che assume una posizione dominante all’interno delle logiche di potere. Ma c’è una tendenza di fondo che è comune a molte altre realtà. Il crollo nella fiducia nei partiti, sempre più incapaci di costituire un collegamento tra la società e le istituzioni. E la trasformazione dei cittadini da protagonisti a spettatori “di una scena politica sempre più spettacolarizzata”, come scrive Ilvo Diamanti nell’introduzione.
La democrazia, pur in forme diverse e sempre meno incisive, continua tuttavia ad esistere: ci sono libere elezioni, una sostanziale libertà di informazione e di dibattito politico, una possibilità di critica verso le decisioni del “potere”, c’è un ruolo dei partiti anche se stentano a trovare una nuova dimensione dopo gli anni della Prima repubblica. Senza sottovalutare le indicazioni sempre più evidenti di una progressiva presa di distanza che per ora ha il suo punto di maggiore evidenza nell’ampliamento dell’area delle astensioni con la mancata partecipazione al voto: lo hanno dimostrato le ultime elezioni così come lo dimostrano i sondaggi che ormai costituiscono il punto di riferimento quotidiano del dibattito politico.
Ma il fatto che il declino della democrazia sia una realtà comune, pur con diversi aspetti, ai maggiori paesi, e soprattutto in quelli di grandi tradizioni, non può certo lasciare tranquilli. Anche perché dovrebbe essere proprio un compito della politica quello di difendere se stessa migliorando gli stessi strumenti della rappresentanza. Una legge elettorale come quella italiana, con le liste bloccate dai partiti e l’impossibilità di qualunque scelta personale che non sia quella espressa nel leader, sembra per esempio fatta apposta per fare in modo che per la classe politica l’unica volontà sia quella di auto legittimarsi.
Può sembrare una provocazione astratta, ma non va in questa prospettiva sottovalutata la possibilità rilanciata da Bernard Manin di affiancare ai classici, ma scricchiolanti metodi di selezione della classe dirigente anche quello in uso nella polis ateniese ai tempi di Pericle: l’estrazione a sorte. Un metodo che gli stessi Montesquieu e Rousseau hanno in più occasioni rivalutato. Un metodo che peraltro, come ha ricordato il bel film “Il sorteggio” nei giorni scorsi, è ancora previsto pur se solo nell’ambito molto particolare dei giudici popolari.
All’origine del sorteggio ateniese c’era anche al fondo un pensiero religioso: il fatto che gli dei avrebbero guidato le scelte. Ma c’era soprattutto il principio della rotazione delle cariche, cioè della necessità che ogni cittadino potesse avere sia il dovere di essere governato, sia il diritto di governare. “In altre parole – afferma Manin – la libertà democratica consisteva non nell’obbedire solo a se stessi, ma nell’obbedire oggi a qualcuno al cui posto ci si poteva trovare domani”.
Da quell’Atene non ci separano solo 2.500 anni. Ci separa il fatto che ci si è sempre più allontanati dalla logica di uno Stato in cui la prima forma di democrazia è quella di essere al servizio di tutti i cittadini.
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Pubblicato sul Sole 24 Ore del 31 ottobre 2010