Parlare di politica economica nell’attuale scenario potrebbe apparire come evocare l’araba fenice. Sono passati quasi quattro mesi dalle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico e quella che si autodefinisce “l’Amministrazione di riferimento per i settori portanti dell'economia italiana” è ancora affidata nominalmente alla guida ad interim del Presidente del Consiglio.
Tutto questo mentre, dopo la doccia fredda, anzi freddissima, della crisi globale, si torna a parlare di crescita, si tornano a leggere i numeri delle statistiche cercando di scorgere gli auspici di una nuova possibile creazione di ricchezza a cui collegare anche la soluzione di problemi sociali importanti come l’occupazione, il benessere magari senza dimenticare l’obiettivo ambizioso della felicità.
In questa prospettiva c’è stato negli ultimi anni, soprattutto (non a caso) prima della crisi, una largo dibattito tra molti economisti e qualche politico sulla necessità di superare la visione strettamente quantitativa dei dati economici, con il Prodotto interno lordo (Pil o all’inglese Gdp), per riscoprire l’economia come scienza sociale e quindi dare spazio anche ai dati “qualitativi” sul benessere, la soddisfazione personale, la sicurezza, magari anche l’ottimismo.
Un percorso che Donato Speroni, giornalista economico che in passato si è appassionato alle statistiche come responsabile della comunicazione dell’Istat, mette in luce nel suo ultimo libro “I numeri della felicità” sottolineando due aspetti importanti: il primo è che bisogna trattare bene le statistiche, renderle affidabili, comprensibili, evitando “l’uso distorto dei dati che in molti paesi, Italia compresa, la classe politica tende a fare scegliendo solo i dati favorevoli alla propria tesi e addirittura mettendo in discussione la qualità dei numeri a questa avversi”; il secondo è che è utile, anzi doveroso, cercare di allargare le informazioni tenendo conto non solo degli aspetti strettamente oggettivi, ma anche di quelli che potremmo chiamare i costi della crescita e quindi l’impatto ambientale, ma anche la qualità della vita, l’affidabilità dei servizi sanitari ed educativi, l’efficienza della giustizia e dell’amministrazione. E questo anche perché nella nostra società la produzione di servizi ha ormai superato quella dei beni e con un valore che tuttavia è necessariamente calcolato nel Pil solo in base ai costi di produzione e non per la loro maggiore o minore utilità sociale.
Ricorda Speroni che vi sono paesi, come Australia e Canada, che stanno facendo grandi passi avanti non solo nell’elaborare “misuratori” del benessere quanto anche nel creare attorno a questi un costruttivo consenso sociale. E altri paesi, come l’Italia dove indicatori di questo tipo vengono puntualmente letti in chiave politica e dove peraltro, se si esclude l’unica classifica generale per provincia che è quella elaborata annualmente dal Sole 24 Ore, non esistono analisi sintetiche della qualità della vita.
Ma lo sviluppo può e deve trovare nelle statistiche basi concrete. Ammesso che si voglia ancora parlare di politica economica.
Donato Speroni, “I numeri della felicità”, Ed. Cooper, pagg. 286, € 15
pubblicato il 26 agosto sul Sole 24Ore