Gli effetti della crisi economica sui comportamenti delle persone sono altrettanto evidenti, quanto complessi da valutare. La caduta dei consumi è stata rapida ed evidente, ma non ha interessato solo l’ampia fascia di redditi che si trova al confine tra le possibilità di risparmio e la necessità di rivedere le proprie priorità di spesa. Non va sottovalutato infatti l’effetto indotto che ha spinto anche chi ha mantenuto intatte le proprie possibilità economiche a sentire l’opportunità di condividere le difficoltà altrui attraverso decisioni di maggiore sobrietà.
I sociologi hanno pane per i loro denti nell’analizzare i cambiamenti nelle decisioni individuali, decisioni che influenzano le dinamiche economiche e la stessa possibilità di uscire dalle difficoltà. Si è infatti passati, almeno nelle economie industrializzate, dagli anni dell’abbondanza e della fiducia in una crescita senza fine, agli anni delle decisioni ponderate, della sostenibilità, dell’attenzione.
Con un’immagine molto efficace, in uno dei suoi ultimi scritti (Il Sole 24 Ore del 26 aprile 2009) Ralf Daherndorf aveva delineato la grande trasformazione di un capitalismo che negli anni ’80 “era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, e si avviò fatalmente verso il capitalismo di debito”.
La società dei consumi è messa a dura prova dalle difficoltà sul fronte dei redditi delle famiglie per la crescita della disoccupazione e per le difficoltà dei giovani sul fronte dell’impiego. Lo rilevano, con un’analisi di carattere eminentemente qualitativo, Laura Bovone e Carla Lunghi, dell’Università cattolica di Milano (“Consumi ai margini”), un’analisi in cui, esaminando le scelte delle famiglie a basso reddito, si mette in risalto come “le pratiche di consumo servono a più ampi compiti di identificazione e di riconoscimento sociale anche per chi, pur disponendo di risorse limitate, cerca di legittimare la propria esistenza oltre alla propria posizione sociale”. Con decisioni che sembrano obbedire ad una logica parallela: da una parte la ricerca dell’affermazione di una precisa identità personale e quindi di una gratificazione anche attraverso piccoli e modesti simboli nel vestiario, ma soprattutto nell’arredamento; dall’altra una funzione “mimetica” per cercare di sentirsi parte di gruppi sociali considerati più elevati e dimostrare, soprattutto a se stessi, il raggiungimento di una sufficiente integrazione sociale.
C’è quindi una dimensione di qualità delle scelte, ma anche di effettiva capacità e volontà di consumare al di là delle aspettative. Vi è per esempio, da parte delle famiglie povere, il sempre più forte ricorso ai diffusi sistemi di gratuità e di dono per gli alimentari e il vestiario in modo da avere disponibilità finanziarie per l’automobile o, ancora di più, per il telefonino, giudicato di fatto indispensabile sia come status symbol, sia come opportunità di relazione.
Al di là delle situazioni di profonda marginalità, le decisioni di spesa di quella platea di persone e famiglie che si trovano all’interno della fascia di povertà dimostrano comunque l’esistenza di limitati, ma significativi, margini di discrezione e di arbitrarietà.
Laura Bovone e Carla Lunghi, “Consumi ai margini”, Ed. Donzelli, pagg. 206, € 24
Pubblicato sul Sole 24 Ore del 29 ottobre 2009