C'è molto spesso un senso di malcelata soddisfazione nelle analisi che gli esponenti della sinistra compiono affrontando le cause e le prospettive dell'attuale crisi economica. Soddisfazione nel vedere il proclamato fallimento delle teorie liberiste, così come nel giudicare incrinata la solidità di quell'economia di mercato considerata un caposaldo delle teorie liberali.
Ma con un'eterna contraddizione di fondo: la difficoltà nel distinguere quanta parte abbia avuto il modello economico, e quindi il suo eventuale fallimento, e quanta parte invece si debba individuare nei comportamenti delle persone, insieme all'incapacità o all'imprevidenza delle istituzioni nell'approntare regole adatte al corretto ed efficace funzionamento del mercato.
Il dibattito su questo fronte potrebbe durare all'infinito, soprattutto se si parte da una posizione pregiudizialmente bloccata come quella del pur approfondito e vivace saggio (Goodbye liberismo) di Alfonso Gianni, esponente politico e sindacale, sottosegretario allo Sviluppo nell'ultimo governo di Romano Prodi. Una posizione secondo cui il mercato deve essere considerato un valore in sé e quindi un sistema rigido, con regole predefinite, con caratteristiche unitarie. Ma non è così. Basta ricordare la definizione di Friedrich von Hayek: «Il mercato è un processo di esplorazione in cui gli individui cercano nuove opportunità che, una volta scoperte, possono essere usate anche da altri». È per questo che il mercato non può che essere considerato uno strumento e non un fine, come dice l'eniciclica Caritas in veritate: non è lo strumento «che deve essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale».
Ma la tentazione della sinistra radicale di considerare definitivamente superata la società liberale resta molto forte. Il libro di Gianni spicca per due tesi di fondo: da una parte il fatto che il liberismo, soprattutto quello fondamentalista, sarebbe sostanzialmente da gettare alle ortiche perché «il capitalismo ha portato se stesso alle estreme conseguenze», dall'altra comunque che «la sinistra non è ancora in grado d'individuare in modo convincente e condiviso una strada per uscire dalla crisi e proporre un nuovo modello di società».
Certo alcune linee guida ci sarebbero e nel libro di Gianni sono spiegate con ampiezza di particolari: la ricerca delle compatibilità ambientali, un maggiore potere agli organismi internazionali con in primo piano l'Onu, un impegno comune per creare una precondizione essenziale alla crescita, cioè la pace.
Ma c'è da chiedersi: sono queste le nuove prospettive della sinistra? O non sono la dimostrazione della stessa analisi di von Hayek secondo cui il liberale e il socialista non divergono sui fini, ma sui mezzi per raggiungerli. O la riaffermazione delle tesi di fondo di Ludwig von Mises che ricordava come la pace sia la condizione di base essenziale per uno sviluppo fondato sulla persona. È allora forse il caso di chiedersi se, proprio di fronte a crisi come quella attuale, non sia opportuno lasciare nella polvere i vecchi arnesi dell'ideologia, così come la ricerca di una lontana dimensione operaia da considerare d'ufficio tra i sostenitori della sinistra.
Alfonso Gianni, Goodbye liberismo, Ed. Ponte alle grazie, pagg. 360, € 16,50
Pubblicato sul Sole 24 Ore del 9 luglio 2009