Per arrivare al tema delle disuguaglianze la teoria economica è sempre partita con l’analisi della distribuzione del reddito, cioè della divisione di salari, profitti e rendite all’interno di un paese e tra le diverse nazioni. E’ proprio in questa prospettiva che la teoria classica ha segnato la nascita dell’economia come scienza sociale, con i contributi di economisti come Adam Smith, Thomas Robert Malthus e David Ricardo. Soprattutto l’opera di quest’ultimo ha messo esplicitamente il problema della distribuzione del reddito tra le classi sociali al centro della riflessione teorica dell’economia politica. Iniziando una ricerca non solo dei meccanismi di funzionamento della società, ma anche delle possibili soluzioni affrontando così il rischio dello sconfinamento nei giudizi di valore e quindi nella politica.
E’ quanto avvenuto con Karl Marx, dove l’analisi economica, partita proprio dall’esistenza delle disuguaglianze, è arrivata a teorizzare la necessità di rimuovere la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Ma al di là dello spirito rivoluzionario gli economisti hanno comunque avuto una costante ritrosia ad affrontare il tema delle disuguaglianze per una semplice ragione: perché non solo non erano considerate un problema, ma anzi erano considerate uno degli elementi fondamentali per mantenere attiva la crescita economica.
Peraltro ha dominato a lungo anche l’ipotesi che la distribuzione del reddito avvenisse secondo quote destinate a rimanere stabili nel tempo. Lo stesso John Maynard Keynes definiva questa costanza come “uno dei fatti più sorprendenti, eppure più consolidati, dell’intera statistica economica”.
Il tema delle disuguaglianze è tuttavia tornato giustamente in primo piano tornando ad avvicinare la teoria economica alle scienze sociali e quindi offrendo agli economisti la possibilità di dimostrare di avere anche un’anima oltre che una grande capacità di analisi. Soprattutto la crisi degli ultimi anni ha messo in luce: da una parte la crescita delle differenze di reddito tra le diverse classi sociali con potenziali pericolose ripercussione sulla coesione sociale, dall’altra la possibilità che proprio una riduzione delle differenze possa essere uno dei motori di una ancora difficile ripresa dell’economia interna e internazionale.
Vale forse la pena di ricordare come “libertà, uguaglianza e fraternità” fossero gli obiettivi di quella rivoluzione francese che ha dato vita allo stato moderno. E così “l’uguaglianza – scrivono Wilkinson e Ticket nel loro “La misura dell’anima” – è la premessa fondamentale per la libertà e la fraternità. Una forte disuguaglianza indebolisce la vita della comunità, erode la fiducia, favorisce la violenza”.
E’ questo un libro che spiega perché le disuguaglianze creano sempre nuovi problemi e perché soprattutto nella nostra società del benessere la stessa crescita unicamente quantitativa rischia di essere parte del problema più che una soluzione. Soprattutto se non riesce a prevalere una prospettiva capace di riconoscere i valori di ciascuna persona. Liberamente, se possibile.
Richard Wilkinson e Kate Pickett, “La misura dell’anima, perché le disuguaglianze rendono le società più infelici", Ed. Feltrinelli, pagg. 300, € 18 – Traduzione (ottima) di Adele Oliveri
Pubblicato il 7 gennaio sul Sole 24 Ore