Pur con molti alti e bassi, nell'economia italiana si è sviluppata negli ultimi decenni una dinamica che ha tentato di lasciare sempre più spazio al mercato con un parallelo ritiro della presenza pubblica nell'economia. Questa strategia ha avuto due direttrici di fondo. In primo luogo la politica delle privatizzazioni che, soprattutto dopo il 1992, ha progressivamente eliminato il controllo pubblico da interi settori come quelli del credito, della telefonia, della distribuzione, una politica che ha avuto la sua espressione più rilevante nella chiusura dell'Iri e del ministero delle Partecipazioni statali.
In secondo luogo la creazione di strutture di regolazione, in particolare le authority, per evitare la creazione di monopoli privati e per controllare la politica dei prezzi e delle forniture nei servizi dove vi sono monopoli naturali.
La svolta attuata vent'anni fa è stata motivata essenzialmente dall'esigenza di bloccare la crescita del debito attraverso la vendita dei gioielli di famiglia. Solo come riflesso del tutto secondario si poteva rintracciare la convinzione che il sistema economico avrebbe potuto essere più efficiente e dinamico grazie al ritiro della mano pubblica con tutte le sue manchevolezze.
E così la fine delle partecipazioni statali ha sì voluto dire che lo stato ha smesso formalmente di fare il banchiere, il costruttore di automobili, il gestore di linee telefoniche, l'albergatore e tante altre cose, ma nonostante questo ancora oggi mantiene una forte influenza e peraltro «rappresenta il maggiore investitore azionario italiano e uno dei principali in Europa». Lo scrive Emilio Barucci nell'analisi, realizzata con Federico Pierobon, su «Stato e mercato nella seconda Repubblica», un saggio che si conclude con un bilancio che viene definito "sconfortante". Non sembra esserci stata nella strategia economica degli ultimi vent'anni né la fiducia nella mano invisibile, seguendo Adam Smith; né la volontà di creare una via italiana al liberismo, verso cui tendevano Luigi Sturzo e Luigi Einaudi; né un riflesso dell'economia sociale di mercato realizzata in Germania; né la forte spinta anticiclica dell'intervento pubblico, sulla scia di John M. Keynes; né una strategia di sostegno all'innovazione e al dinamismo imprenditoriale, come teorizzato da Joseph Schumpeter; e neppure quella visione partecipata di stato sociale messa in evidenza da Karl Polianyi. O meglio: ci sono stati un po' tutti questi ingredienti mischiati confusamente insieme.
Poco stato e poco mercato: potrebbe essere questa la fotografia di un'Italia che non ha saputo imboccare negli ultimi anni la via della crescita e dove permangono «forti inefficienze e rendite di posizione favorite da una regolazione incerta». Anche perché il passaggio dallo stato imprenditore allo stato regolatore è rimasto a metà strada con l'effetto di raccogliere più difetti che pregi. E questo è tanto più evidente in un momento in cui la crisi, riducendo ancor di più i margini di manovra delle finanze pubbliche, dovrebbe spingere invece sempre di più lo stato a scendere in campo non per contrastare il mercato, ma per aiutarlo a funzionare
Emilio Barucci e Federico Pierobon, "Stato e mercato nella seconda repubblica", Ed. Il Mulino, pagg. 290, € 28
Pubblicato giovedì 14 ottobre sul Sole 24 Ore