C’era una volta il mito delle banche svizzere

C’era una volta il mito delle banche svizzere. Quello del banchiere non è mai stato un mestiere facile, soprattutto per la necessità di prevedere prima e adattarsi poi ai cambiamenti dello scenario economico. La banca peraltro è un elemento essenziale del sistema di libero mercato, un sistema che non a caso è definito “capitalistico” perché ha nella circolazione del denaro uno dei suoi elementi fondanti. Ma la definizione è quanto meno riduttiva perché sembra quasi mettere in secondo piano quel fattore umano che deve essere considerato invece il perno fondamentale.
Nella stessa prospettiva il banchiere è spesso considerato una figura principalmente collegata alle tecniche contabili mentre andrebbero posti in primo piano i valori della competenza e della discrezionalità, quei valori che hanno costituito la base di uno dei libri più importanti di Luigi Einaudi, “La difficile arte del banchiere”, scritto all’inizio del secolo scorso, ma che conserva una grande attualità.

Ai giorni nostri come allora infatti si palesa periodicamente la tentazione di considerare le banche un servizio pubblico e il risparmio dei cittadini un valore che lo Stato deve tutelare. Scrive Einaudi: “ Se lo Stato garantisse le private iniziative contro le perdite, quale spaventevole abisso si spalancherebbe dinanzi al paese!” E’ quello che viene chiamato “azzardo morale”, la tentazione dei banchieri (e non solo) di assumersi rischi per massimizzare gli utili nella convinzione che lo Stato non potrebbe che intervenire in caso di difficoltà anche per non provocare crisi sistemiche di vaste e incontrollabili proporzioni, come per esempio è avvenuto nel caso Lehman Brothers. E’ la logica del “too big too fail”, troppo grandi per fallire, che ha fatto da silenzioso paravento ad una delle più gravi crisi bancarie degli ultimi anni, il crollo del Credit Suisse, sfociato nell’acquisizione da parte dell’altro colosso bancario elvetico, l’Ubs  (www.ubs.com).
Un’attenta ricostruzione dello splendore e della decadenza di una delle banche che è stata protagonista della storia della Confederazione, e che almeno in parte ha contribuito a creare nel passato il mito dell’efficienza e della solidità delle banche svizzere, è contenuta nel libro di Mathilde Farine, giornalista del quotidiano Le temps, con prefazione di Stefano Righi “La caduta, Il caso Credit Suisse” (Ed. Guerini e associati, pagg. 160, € 16,50).
Un libro che lascia scoprire l’arrogane vanità di molte scelte operative, la persiste velleità di aggiungere rischi a rischi. “Non possiamo dimenticare – scrive Righi – i tanti, troppi episodi di cattiva conduzione, sottovalutazione dei rischi e presuntuosa gestione del potere che si sono succeduti con frequenza impressionante.”
La crisi del Credit Suisse ha trovato soluzione all’interno del sistema bancario con l’acquisizione totale da parte di Ubs con la progressiva dissoluzione della vecchia identità. Si è creato così un nuovo e più grande colosso del credito, una realtà ben più grande di quanto, in teoria, sarebbe necessario per una realtà economica come quella svizzera. E quindi nei fatti costretta ad allargare la propria attività a livello globale. Ma non bisogna che proprio le disavventure, e talvolta le illegalità, compiute in America come in Asia hanno contributo alla crisi che è stata fatale per il Credit Suisse.
C’era una volta il mito delle banche svizzere e quindi il mito delle banche svizzere non è più quello di una volta. La nuova e più grande Ubs sembra comunque ora muoversi nel sentiero della serietà e dell’affidabilità. Nelle mani di un manager, Sergio Ermotti, che conosce l’arte del banchiere anche perché l’ha imparata in Italia, all’inizio degli anni 2000 nei piani alti di Unicredit.