C’è rischio e rischio. Ha fatto scalpore nei giorni scorsi, e ha provocato improvvisi e forti ribassi dei titoli in Borsa, la notizia delle perdite milionarie delle grandi banche svizzere e di altri istituti internazionali a seguito del fallimento di un fondo d’investimento fino a ora conosciuto solo tra gli addetti ai lavori, l’Archegos capital management che fa capo al finanziere coreano Bill Hwang.
Che cosa è avvenuto? E’ avvenuto che il fondo di investimento non ha risposto a quella che viene chiamata una margin call, ovvero una richiesta di rifinanziamento di una posizione scoperta. In pratica le banche avevano prestato dei capitali al fondo, capitali garantiti dagli investimenti finanziari dello stesso fondo. Nel momento in cui questi investimenti hanno perso valore le banche hanno chiesto la ricopertura in tutto o in parte dei loro prestiti scoprendo tuttavia che il fondo non poteva onorare i suoi impegni.
Con un particolare in più: il fondo operava servendosi ampiamente di strumenti finanziari speculativi, cioè dei derivati che permettono di moltiplicare i guadagni assumendosi i rischi di moltiplicare eventualmente anche le perdite. Cosa, quest’ultima, che è pesantemente avvenuta.
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E’ forse curioso notare come in questi anni ci sia stata una rivoluzione nel significato delle parole: il fondo del magnate coreano era infatti un classico hedge fund e con il termine inglese “hedge” si identificano, in teoria, le strategie di copertura e protezione volte a diminuire la volatilità dei portafogli e, di conseguenza, di contenere il più possibile i rischi.
In teoria… perché ormai gli hedge fund sono diventati fondi fortemente speculativi, fondi che utilizzano i più sofisticati strumenti di ingegneria finanziaria con una caratteristica principale che è comune a tutti: la ricerca di un rendimento comunque positivo, a prescindere dall’andamento del mercato finanziario di riferimento, che ovviamente può alternare momenti positivi a momenti negativi.
Si tratta di principi che vengono illustrati ampiamente nei manuali finanza operativa, ma che trovano ampio spazio anche nei libri di storia dedicati alle ricorrenti crisi bancarie.
Gli esempi possono essere tanti: forse il più clamoroso è quello del Long Term capital market, un fondo che aveva tra i suoi dirigenti addirittura due premi Nobel, Myron Scholes e Robert Merton, che avevano ottenuto il riconoscimento nel 1997 proprio per la loro teoria sulle opzioni sui mercati finanziari. Solo un massiccio intervento di salvataggio della banca centrale americana ha impedito a fine ‘98 un fallimento che avrebbe avuto effetti dirompenti: il fondo infatti aveva messo i suoi 4,8 miliardi di capitale a garanzia per l’acquisto di titoli per 125 miliardi, i quali a loro volta furono utilizzati come collaterale per operazioni che prevedevano un’esposizione totale di 1250 miliardi di dollari.
La strategia suggeriti dai premi Nobel si basava su di un modello matematico che prevedeva un piccolo guadagno altamente probabile a fronte di una grande perdita altamente improbabile.
Ma che un fatto sia improbabile non vuol dire che non possa avvenire. E non bisogna dimenticare che la logica del rischio è nella stessa natura dei mercati finanziari. Con l’esperienza che dimostra che tanto più alti sono i rendimenti che si desiderano ottenere tanto maggiore è il rischio che si deve affrontare. Come dire: è rischioso affrontare dei rischi.
Perché il rischio ha una particolarità. Ogni tanto si verifica, ogni tanto diventa concreto e reale.
Il vero problema è che le crisi finanziarie sembrano non insegnare nulla. Certo, ci vorrebbero regole migliori e controlli più efficaci. Ma senza dimenticare che il rischio, ovviamente senza eccessi e in modica quantità, è una componente fondamentale della stessa dinamica economica. Perché, come diceva un guru del management come Peter Drucker, “nella vita ci sono rischi che non possiamo permetterci di correre e ci sono rischi che non possiamo permetterci di non correre”.
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Trasmesso nella rubrica Plusvalore della Rete Due della Radio della Svizzera italiana