Visto dall’Europa il modello del welfare americano è spesso considerato come un sistema privo sostanzialmente di garanzie sul fronte dell’assistenza e affidato all’iniziativa privata e alla finanza sul fronte previdenziale. Il dibattito sulla stessa riforma sanitaria, che è stata uno dei punti forti di questi primi mesi della presidenza di Barack Obama, ha spesso messo in risalto più le carenze e le disuguaglianze (peraltro oggettive e motivo della stessa riforma) che non i dati almeno in parte positivi di un sistema fondato su di un intreccio tra pubblico e privato, tra impegni statali e solidarietà individuali o familiari.
Come dimostra l’attenta ricostruzione di Francesco Tanzilli (La via americana al welfare) vi è stata infatti negli ultimi decenni, in particolare dalla presidenza Kennedy in poi, una trasformazione graduale, ma significativa di un sistema di sicurezza sociale, nato sulle ceneri della grande crisi del ’29 con il Social security act del ’35, un sistema che aveva tuttavia gradualmente perso la possibilità di garantire i bisogni essenziali.
In effetti è difficile, e spesso fuorviante, giudicare il welfare americano secondo le categorie con cui quotidianamente giudichiamo il welfare della tradizione europea. Lo sottolineava all’inizio degli anni 90 Michel Albert, nel suo Capitalismo contro capitalismo in cui si mettevano a confronto i due modelli: quello "americano", fondato sui valori individuali e sulla solidarietà, sulle riduzione delle regole e del controllo pubblico, sulla massimizzazione del profitto a breve e sullo strapotere del mercato finanziario; e quello "renano", tipico dell’Europa occidentale, fondato su un’economia di mercato che si pone tuttavia come obiettivo anche la "coesione sociale", considerandolo un valore che è anche un fattore di competitività del sistema economico.
Due modelli che peraltro nascono da un diverso concetto dello stato. Come sottolineava Alexis de Tocqueville «alla testa di iniziative nuove in Francia troverete il governo, in America qualche associazione» perché gli americani «si associano per organizzare feste, fondare seminari, ospedali, prigioni, scuole». E fino agli anni 30 la preoccupazione del parlamento e della Corte suprema americana ha sempre avuto come obiettivo quello di salvaguardare e proteggere l’autonomia e la funzionalità delle associazioni volontarie e degli enti non profit.
Il dato di fondo nell’esperienza americana rimane quindi il valore dell’integrazione costruttiva tra la solidarietà e le iniziative private da una parte e dall’altra le garanzie e le promozioni pubbliche anche di carattere fiscale. E non è un caso se i più significativi passi in avanti nelle riforme siano stati realizzati attraverso accordi bipartisan: «con una collaborazione tra i diversi schieramenti politici – annota Tanzilli – con un’ampia condivisione di una visione incentrata sull’etica del lavoro e della responsabilità, custodita non solo dai conservatori, ma anche da un’ampia parte del mondo moderato e progressista».
Francesco Tanzilli, La via americana al welfare, Ed. Guerini e associati, pagg. 208, € 28
Pubblicato sul Sole 24 Ore il 14 gennaio